La legge 184/83, così come modificata dalla legge 149/01, nel medesimo articolo che decreta il superamento del ricorso agli istituti (art. 2), sancisce che i minori per i quali «non sia possibile l’affidamento» debbano essere inseriti in «comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia».
Questa breve e densa indicazione legislativa va accompagnata con alcune precisazioni.
È innanzitutto opportuno chiarire che per “impossibilità di affidamento” bisogna intendere non – come invece ancora sovente avviene – la mancanza di servizi affidi e/o di famiglie disponibili alla realizzazione dell’affidamento stesso, bensì la “non adeguatezza dell’affidamento” rispetto agli specifici bisogni di cui un dato minore è portatore. Deve intendersi cioè una situazione in cui il primario interesse del minore venga tutelato offrendogli la forma di accoglienza a lui maggiormente utile. In questo senso ogni decisione deve essere children’s need led, cioè “centrata” sui bisogni dei minori e non sulle scelte, sensibilità, esigenze dei vari adulti in gioco (famiglia di origine, operatori socio-sanitari, famiglie affidatarie, comunità residenziali, …).
Altro elemento di rilievo è che le “comunità”, proprio in quanto “caratterizzate da assetti organizzativi e relazionali analoghi a quelli di una famiglia”, non possono essere considerati dei “luoghi affettivamente neutri”.
Fatte queste premesse è possibile interrogarsi sugli “standard affettivi” delle comunità, approfondendo la diversa “connotazione relazionale” che caratterizza le varie tipologie e forme in cui una comunità può essere organizzata. La mancanza di definizioni e indicazioni nazionali univoche e le diverse impostazioni adottate dalle normative regionali impediscono una disamina completa del fenomeno. Ad uno sguardo complessivo riteniamo tuttavia possibile individuare due marco-tipologie “relazionali” a seconda che sia presente o assente la relazione di convivenza tra accolti e accoglienti.
Le comunità che offrono una relazione di convivenza tra accolti e accoglienti (sovente integrata dalla presenza di operatori specializzati turnanti) a seconda del sistema relazionale che offrono, sono da distinguere a loro volta in:
• comunità con famiglia residente, caratterizzata dalla presenza di una coppia di adulti legati da una relazione affettiva stabile (nella maggior parte dei casi si tratta di una coppia di coniugi) e dalla presenza dei figli della coppia e di altri minori accolti. Il sistema relazionale che entra in gioco in queste comunità, fatto di reciproca condivisione della propria “privacy”, offre la possibilità di “osservare-respirare-comprendere” la relazione affettiva di coppia, la relazione genitori-figli biologici. La presenza dei figli della coppia potrà a seconda dei casi fare da supporto o da ostacolo al buon inserimento del minore accolto. La presenza della famiglie favorisce nel minore accolto un senso di “normalità”. Può favorire l’insorgenza di conflitti di lealtà nei confronti della propria famiglia di origine. Solo in alcuni casi uno o entrambi i membri della coppia residente hanno una competenza specifica in campo psico-socio-pedagogico. Nella maggior parte dei casi il profilo delle competenze tecniche è dunque modesto;
• comunità con famiglia residente + multiutenza, in cui oltre alla coppia, ai figli della coppia e ad altri minori accolti, sono presenti in casa altre tipologie quali anziani, ragazze madri, … È il modello promosso dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che alcune Regioni hanno riconosciuto inserendolo nella propria normativa, il che offre un sistema di relazioni che punta a valorizzare la ricchezza inter-generazionale (ad esempio tra anziani-nonni e bambini-nipoti).
• comunità con operatori residenti, in cui non è presente una coppia (né, di conseguenza, i figli della coppia). È il caso delle comunità gestite da operatori singoli (professionali o volontari) o da comunità religiose. Per effetto della convivenza, la relazione adulto-minore accolto è molto intensa. V’è dunque mancanza della coppia, dei figli della coppia, dei “nonni”, … mentre è presente la relazione con altri minori accolti. Più frequentemente delle comunità con famiglia questi operatori hanno una competenza in campo psico-socio-pedagogico. Tali specifiche possono fare preferire o escludere questa tipologia a seconda dei concreti bisogni di cui il minore è portatore.
Le comunità che non offrono una relazione di convivenza (basate interamente sulla presenza di personale specializzato turnante). In questo tipo di comunità i conflitti di lealtà dei minori verso i loro genitori sono meno probabili/intensi. Anche queste possono essere distinte in:
• comunità con operatori turnanti nelle 24 ore: è il caso delle numerose “comunità educative” che rappresentano la tipologia maggiormente diffusa. Il gruppo degli operatori turnanti oscilla, in genere, tra i 5 e gli 8 operatori, tutti o in parte in possesso di competenze in campo psico-socio-pedagogico. Il profilo professionale di tali comunità varia a seconda della tipologia di servizio svolto: educativo, terapeutico-riabilitativo, ... Ciascun operatore, in genere, svolge presso la comunità uno o più turni settimanali il che offre buoni spazi di relazione con i minori. Si tratta di rapporti che si connotano in maniera diversa da quelli di convivenza, più leggeri e meno “traboccanti-invadenti”, e per questo da preferire o escludere in base ai bisogni specifici del minore. In questi contesti la relazione con gli altri minori accolti emerge come l’unica relazione di convivenza e spesso si traduce in una “coesione-coalizione” più forte (anche se non sempre funzionale) rispetto al modello con operatore residente.
• comunità con operatori turnanti parzialmente presenti. È il caso delle strutture che ospitano i ragazzi più grandi, in regime di semi-autonomia (denominate “gruppi appartamento”, “comunità per la semi-autonomia”, …) in cui vi sono alcune fasce orarie. Qui l’età più elevata e la parziale assenza degli operatori caratterizza in modo ancora più leggero e flessibile il sistema relazionale.
Completano il quadro le comunità di pronta e transitoria accoglienza e le comunità per madri con figli, nelle quali la dimensione relazione con i minori è meno rilevante a motivo della breve durata o della presenza della madre dei minori.
SPUNTI PER IL CONFRONTO:
Quali ulteriori specifiche relazionali caratterizzano le tipologie di comunità elencate? Vi sono ulteriori tipologie da aggiungere all’elenco?
Quali sono gli elementi che vanno tenuti presenti nella scelta della comunità (standard relazionali, standard organizzativi, …)? Si può parlare di un vero e proprio abbinamento comunità-minore alla stregua di quanto avviene nel campo dell’affidamento familiare? Nell’abbinamento comunità-minore va tenuto presente anche il profilo degli altri (figli o accolti) ivi residenti?
Ferma restando la necessità di scegliere la comunità, caso per caso, in base alla migliore abbinabilità al minore, è possibile individuare alcune indicazioni di carattere generale? Ad esempio si può ipotizzare che, salvo eccezioni motivate:
• i minori 0-6 anni vadano inseriti nelle comunità con famiglia residente (con o senza multi-utenza)?
• che le minori vittime di abusi sessuali vadano inserite in comunità con operatori altamente specializzati e prive di una figura adulta maschile convivente?
• che l’inserimento nelle comunità semi-autonome va fatto solo a fronte di specifiche esigenze/profili dei minori?
• che, salvo motivate controindicazioni, diventi parte integrante di un progetto individualizzato l’affiancamento ad ogni bambino/ragazzo di una famiglia di supporto?
Come favorire una maggiore pronunciamento della normativa nazionale e regionale vigente rispetto alla valutazione delle risorse emotive e degli stili relazionali ed educativi proposti dalle differenti tipologie di comunità?
L’accoglienza di un bambino in comunità si sintonizza sempre con specifici vissuti ed esperienze relazionali ed emotive dell’adulto di riferimento, sia esso famiglia e/o operatore (residenti o turnante). Emergono vissuti, modelli operatori e giochi relazionali, complessi e non preventivabili, che necessitano di una “lettura nel qui ed ora dell’incontro”, sia inteso come spazio relazionale uno ad uno, che sistemico. Questo richiederebbe l’attivazione di una supervisione psico-emotiva oggi scarsamente praticata, sia per la mancanza di una adeguata “cultura della supervisione” che per l’assenza di specifici obblighi normativi. Quali considerazioni e spunti è possibile fare intorno a tali elementi?