2. GLI “STANDARD AFFETTIVI” DELLE COMUNITÀ

L’accoglienza (sia in affido familiare che in comunità) come offerta di relazioni significative; accoglienza, ristrutturazione dei Modelli Operativi Interni (MOI) e fattori di resilienza; gli “standard affettivi” delle comunità con famiglia residente e delle comunità con operatori turnanti; la tutela della continuità degli affetti dei minori in affido e in comunità.

ESPERTI COINVOLTI: Liviana Marelli, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza; Valter Martini, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Veronica Pelonzi, Comune di Roma, CNSA – Coord. Nazionale Servizi Affidi; Giulia Palombo, area Comunità Familiari della Federazione Progetto Famiglia; ...

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2. GLI “STANDARD AFFETTIVI” DELLE COMUNITÀ

Messaggioda Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online » 09/03/2013, 5:54

La legge 184/83, così come modificata dalla legge 149/01, nel medesimo articolo che decreta il superamento del ricorso agli istituti (art. 2), sancisce che i minori per i quali «non sia possibile l’affidamento» debbano essere inseriti in «comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia».
Questa breve e densa indicazione legislativa va accompagnata con alcune precisazioni.
È innanzitutto opportuno chiarire che per “impossibilità di affidamento” bisogna intendere non – come invece ancora sovente avviene – la mancanza di servizi affidi e/o di famiglie disponibili alla realizzazione dell’affidamento stesso, bensì la “non adeguatezza dell’affidamento” rispetto agli specifici bisogni di cui un dato minore è portatore. Deve intendersi cioè una situazione in cui il primario interesse del minore venga tutelato offrendogli la forma di accoglienza a lui maggiormente utile. In questo senso ogni decisione deve essere children’s need led, cioè “centrata” sui bisogni dei minori e non sulle scelte, sensibilità, esigenze dei vari adulti in gioco (famiglia di origine, operatori socio-sanitari, famiglie affidatarie, comunità residenziali, …).
Altro elemento di rilievo è che le “comunità”, proprio in quanto “caratterizzate da assetti organizzativi e relazionali analoghi a quelli di una famiglia”, non possono essere considerati dei “luoghi affettivamente neutri”.
Fatte queste premesse è possibile interrogarsi sugli “standard affettivi” delle comunità, approfondendo la diversa “connotazione relazionale” che caratterizza le varie tipologie e forme in cui una comunità può essere organizzata. La mancanza di definizioni e indicazioni nazionali univoche e le diverse impostazioni adottate dalle normative regionali impediscono una disamina completa del fenomeno. Ad uno sguardo complessivo riteniamo tuttavia possibile individuare due marco-tipologie “relazionali” a seconda che sia presente o assente la relazione di convivenza tra accolti e accoglienti.
Le comunità che offrono una relazione di convivenza tra accolti e accoglienti (sovente integrata dalla presenza di operatori specializzati turnanti) a seconda del sistema relazionale che offrono, sono da distinguere a loro volta in:
comunità con famiglia residente, caratterizzata dalla presenza di una coppia di adulti legati da una relazione affettiva stabile (nella maggior parte dei casi si tratta di una coppia di coniugi) e dalla presenza dei figli della coppia e di altri minori accolti. Il sistema relazionale che entra in gioco in queste comunità, fatto di reciproca condivisione della propria “privacy”, offre la possibilità di “osservare-respirare-comprendere” la relazione affettiva di coppia, la relazione genitori-figli biologici. La presenza dei figli della coppia potrà a seconda dei casi fare da supporto o da ostacolo al buon inserimento del minore accolto. La presenza della famiglie favorisce nel minore accolto un senso di “normalità”. Può favorire l’insorgenza di conflitti di lealtà nei confronti della propria famiglia di origine. Solo in alcuni casi uno o entrambi i membri della coppia residente hanno una competenza specifica in campo psico-socio-pedagogico. Nella maggior parte dei casi il profilo delle competenze tecniche è dunque modesto;
comunità con famiglia residente + multiutenza, in cui oltre alla coppia, ai figli della coppia e ad altri minori accolti, sono presenti in casa altre tipologie quali anziani, ragazze madri, … È il modello promosso dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che alcune Regioni hanno riconosciuto inserendolo nella propria normativa, il che offre un sistema di relazioni che punta a valorizzare la ricchezza inter-generazionale (ad esempio tra anziani-nonni e bambini-nipoti).
comunità con operatori residenti, in cui non è presente una coppia (né, di conseguenza, i figli della coppia). È il caso delle comunità gestite da operatori singoli (professionali o volontari) o da comunità religiose. Per effetto della convivenza, la relazione adulto-minore accolto è molto intensa. V’è dunque mancanza della coppia, dei figli della coppia, dei “nonni”, … mentre è presente la relazione con altri minori accolti. Più frequentemente delle comunità con famiglia questi operatori hanno una competenza in campo psico-socio-pedagogico. Tali specifiche possono fare preferire o escludere questa tipologia a seconda dei concreti bisogni di cui il minore è portatore.
Le comunità che non offrono una relazione di convivenza (basate interamente sulla presenza di personale specializzato turnante). In questo tipo di comunità i conflitti di lealtà dei minori verso i loro genitori sono meno probabili/intensi. Anche queste possono essere distinte in:
comunità con operatori turnanti nelle 24 ore: è il caso delle numerose “comunità educative” che rappresentano la tipologia maggiormente diffusa. Il gruppo degli operatori turnanti oscilla, in genere, tra i 5 e gli 8 operatori, tutti o in parte in possesso di competenze in campo psico-socio-pedagogico. Il profilo professionale di tali comunità varia a seconda della tipologia di servizio svolto: educativo, terapeutico-riabilitativo, ... Ciascun operatore, in genere, svolge presso la comunità uno o più turni settimanali il che offre buoni spazi di relazione con i minori. Si tratta di rapporti che si connotano in maniera diversa da quelli di convivenza, più leggeri e meno “traboccanti-invadenti”, e per questo da preferire o escludere in base ai bisogni specifici del minore. In questi contesti la relazione con gli altri minori accolti emerge come l’unica relazione di convivenza e spesso si traduce in una “coesione-coalizione” più forte (anche se non sempre funzionale) rispetto al modello con operatore residente.
comunità con operatori turnanti parzialmente presenti. È il caso delle strutture che ospitano i ragazzi più grandi, in regime di semi-autonomia (denominate “gruppi appartamento”, “comunità per la semi-autonomia”, …) in cui vi sono alcune fasce orarie. Qui l’età più elevata e la parziale assenza degli operatori caratterizza in modo ancora più leggero e flessibile il sistema relazionale.
Completano il quadro le comunità di pronta e transitoria accoglienza e le comunità per madri con figli, nelle quali la dimensione relazione con i minori è meno rilevante a motivo della breve durata o della presenza della madre dei minori.

SPUNTI PER IL CONFRONTO:

Quali ulteriori specifiche relazionali caratterizzano le tipologie di comunità elencate? Vi sono ulteriori tipologie da aggiungere all’elenco?

Quali sono gli elementi che vanno tenuti presenti nella scelta della comunità (standard relazionali, standard organizzativi, …)? Si può parlare di un vero e proprio abbinamento comunità-minore alla stregua di quanto avviene nel campo dell’affidamento familiare? Nell’abbinamento comunità-minore va tenuto presente anche il profilo degli altri (figli o accolti) ivi residenti?

Ferma restando la necessità di scegliere la comunità, caso per caso, in base alla migliore abbinabilità al minore, è possibile individuare alcune indicazioni di carattere generale? Ad esempio si può ipotizzare che, salvo eccezioni motivate:
• i minori 0-6 anni vadano inseriti nelle comunità con famiglia residente (con o senza multi-utenza)?
• che le minori vittime di abusi sessuali vadano inserite in comunità con operatori altamente specializzati e prive di una figura adulta maschile convivente?
• che l’inserimento nelle comunità semi-autonome va fatto solo a fronte di specifiche esigenze/profili dei minori?
• che, salvo motivate controindicazioni, diventi parte integrante di un progetto individualizzato l’affiancamento ad ogni bambino/ragazzo di una famiglia di supporto?

Come favorire una maggiore pronunciamento della normativa nazionale e regionale vigente rispetto alla valutazione delle risorse emotive e degli stili relazionali ed educativi proposti dalle differenti tipologie di comunità?

L’accoglienza di un bambino in comunità si sintonizza sempre con specifici vissuti ed esperienze relazionali ed emotive dell’adulto di riferimento, sia esso famiglia e/o operatore (residenti o turnante). Emergono vissuti, modelli operatori e giochi relazionali, complessi e non preventivabili, che necessitano di una “lettura nel qui ed ora dell’incontro”, sia inteso come spazio relazionale uno ad uno, che sistemico. Questo richiederebbe l’attivazione di una supervisione psico-emotiva oggi scarsamente praticata, sia per la mancanza di una adeguata “cultura della supervisione” che per l’assenza di specifici obblighi normativi. Quali considerazioni e spunti è possibile fare intorno a tali elementi?
Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online
 
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Re: 2. GLI “STANDARD AFFETTIVI” DELLE COMUNITÀ

Messaggioda GIULIA PALOMBO » 30/04/2013, 7:54

La scelta del tipo di comunità in cui inserire un minore deve, senza dubbio, essere orientata consapevolmente in base alle necessità del minore e alle caratteristiche della comunità.
Sarebbe auspicabile, quindi, che ogni collocamento in comunità sia un vero e proprio "abbinamento" non fatto solo in base a indicazioni di carattere generale (quelle elencate sono tutte condivisibili) ma considerando le caratteristiche e le peculiarità sia del minore da collocare che della comunità che accoglie.
Storia del minore, strutturazione e organizzazione della comunità, presenza o meno di altri accolti, relative storie e vissuti, presenza di figli della coppia responsabile e loro età e sesso, numero e tipologia di operatori specializzati presenti, sono tutti elementi che vanno considerati nella scelta.
Nella pratica quotidiana della gestione di case famiglia e comunità educative di tipo familiare dell'associazione Progetto Famiglia Accoglienza, cerchiamo di effettuare l'abbinamento tra minore e comunità sempre tenendo conto delle specifiche caratteristiche di ogni contesto. Pur essendo tutti caratterizzati da relazioni di convivenza stabili e organizzazione e rapporti interpersonali tipici di una famiglia, ogni contesto è un sistema a sè stante ed è caratterizzato da stili relazionali e comportamentali peculiari, di cui di volta in volta teniamo conto nell'abbinamento minore/struttura e nell'elaborazione del progetto educativo individualizzato.
Cerchiamo, inoltre, una volta effettuato l'abbinamento e avviata l'accoglienza, di dare più spazio possibile ad un lavoro di riflessione e consapevolezza sui vissuti, aspettative e dinamiche relazionali che ciascuna accoglienza mette in gioco.
Sarebbe interessante se i servizi sociali territoriali potessero disporre di un elenco costantemente aggiornato e completo di informazioni dettagliate, non solo sulla tipologia della struttura e del servizio svolto, ma anche su caratteristiche e assetti di ciascuna comunità di accoglienza.
GIULIA PALOMBO
 
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Re: 2. GLI “STANDARD AFFETTIVI” DELLE COMUNITÀ

Messaggioda LIVIANA MARELLI » 13/05/2013, 11:52

LA COMUNITA’ DI ACCOGLIENZA: L’IDENTITA’, IL SAPORE E IL SAPERE

• Parto dalla consapevole affermazione che “ciascuno ha diritto ad un progetto per sé”, attento – curato – pensato – flessibile – costruito con passione e con competenza in relazione autentica con le storie che incontriamo, le persone che accompagniamo – uniche ed irripetibili, i bisogni specifici che ci interpellano..

• Accogliere le persone e le storie, significa allora abbandonare stereotipi e pregiudizi per costruire pazientemente “la risposta” per quel bambino, quel ragazzo, quella famiglia, quell’adulto.., la risposta quale diritto al progetto per sé

• E’ in questo contesto di senso allora che occorre pensare ad implementare la filiera delle opportunità e delle relazioni sinergiche tra le diverse opportunità proprio per permettere pluralità di risposte, attente, pensate, progettate, verificate

• La comunità di accoglienza è dunque una delle risposte possibili. Non l’unica. Non contrapposta ad altre risposte, quali soprattutto l’AFFIDO FAMILIARE

• Il CNCA, le diverse organizzazioni del CNCA, accanto all’esperienza delle comunità di accoglienza hanno sviluppato nel tempo diverse altre risposte ed opportunità: l’AFFIDO FAMILIARE e LE RETI DI FAMIGLIE (il CNCA è membro del tavolo nazionale affidi); le COMUNITA’ DIURNE/LEGGERE quali opportunità forte di accompagnamento del minore e contestualmente di riattivazione della famiglia d’origine; EDUCATIVA DOMICILIARE, CASE DI ACCOGLIENZA “Mamme –bambini”, progetti di avvio all’autonomia..e molto altro proprio per superare la “tipicizzazione” della risposta e rendere vero il diritto per ciascuno ad un “progetto per sé”

• Parlare e fare “comunità di accoglienza” richiede però molta chiarezza rispetto a “di che cosa stiamo parlando” e per questo proverò a dire l’identità della comunità di accoglienza, così come le organizzazioni del CNCA la propongono e la praticano nella quotidianità di adulti e professionisti che ne accompagnano la storia

• parto dal ricordare che la legge 183/84 e la successiva legge 149/01 garantisce il diritto per tutti i minorenni a crescere e ad essere educato in una famiglie, a partire dalla propria. Questa stessa norma prevede che “laddove si verifichi una situazione di pregiudizio per il minorenne stante una condizione di incapacità da parte delle figure genitoriali ad assolvere positivamente ai compiti connessi all’esercizio della potestà, oltre all’adozione e all’affidamento familiare, si possa ricorrere all’accoglienza temporanea in “Comunità di tipo familiare” caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia.

• e’ dunque questa identità di comunità di tipo familiare che occorre definire con chiarezza e con serietà al fine di impedire qualunque forma di riedizione”mascherata” di forme di istituzionalizzazione. Va detto che attualmente – e nonostante le ripetute sollecitazioni di molti autorevoli istituzioni: dall’osservatorio nazionale infanzia e adolescenza, al gruppo di lavoro sul monitoraggio dello stato di attuazione della CRC in Italia, allo stesso garante nazionale infanzia e adolescenza…- non sono ancora stati definiti a livello nazionale standard essenziali - e omogenei sull’intero territorio- per le diverse tipologie di comunità a cui le singole regioni devono far riferimento. Tale mancanza determina oggi una condizione di grande difformità tra le regioni in riferimento alle tipologie, alle professionalità, ai modelli organizzativi, al numero dei minorenni accolti, alla “denominazione stessa” (in Lombardia 3 tipologie, il termine “casa-famiglia” abusato e non rispondente a tipologie presenti in tutte le regioni..).

così come occorre dire che esiste un obbligo di verifica e monitoraggio costante circa il mantenimento degli standard e- soprattutto circa la condizione dei bambini/ragazzi accolti (Organi di vigilanza – procura della repubblica per minorenni). Obbligo non sempre assunto e praticato con costanza da parte degli organi competenti. E su questo è necessario invece insistere affinchè questa funzione sia esercitata e vengano chiusi i luoghi dell’accoglienza impropri e non rispondenti al “superiore interesse del minore” .
per comunità di tipo familiare intendo sia la “comunità familiare” con famiglie/adulti residenti sia la comunità educativa che prevede la presenza dell’èquipe educativa (professionisti)

• l’identità della comunità di tipo familiare può allora essere declinata e verificata in riferimento ad elementi specifici quali: ne indico tre per brevità (le immagini che scorrono possono più delle parole dire il senso delle comunità di tipo familiare..)
- la comunità è casa. La comunità, per il CNCA, è una “casa tra le case”. Confusa e confondibile nel contesto urbano ed organizzata in riferimento alle esigenze della “famiglia allargata/numerosa” che la abita.
Una casa, con la cucina, il soggiorno, le camere da letto, lo spazio per i compiti, per i giochi..spazi personalizzati (in ordine e in disordine, come nelle nostre case…con camere arredate con gusti diversi,..)
Una casa dove gli adulti si prendono cura della quotidianità (cucinano, fanno la spesa, fanno i mestieri…dove non c’è la cucina centralizzata o la fornitura pasti..)
Una casa aperta: che accoglie amici, festeggia i compleanni, sta in relazione con gli altri (oratorio, parrocchia, la scuola, gli scout, i centri sportivi, l’arci, il WWF, le palestre, il calcio, la danza, il nuoto..)
Una casa: aperta,dove vengono le famiglie d’origine (quando è possibile), dove si accoglie la famiglia affidataria e/o adottiva che accoglierà il bambino, dove ci sono dei volontari che incrociano la quotidianità dei bambini e fanno “la rete di riferimento” ..
Una casa: che organizza le vacanze nei campeggi, in montagna, al mare dove vanno tutti . grandi e piccoli (adulti residenti, educatori..) .se sono fortunati vanno in barca a vela con gli amici, vanno nei campi lavoro di libera..i più grandi…vanno al campo scout o alle vacanze con l’oratorio…vanno in gita scolastica con la scuola (anche all’estero ..)
Una casa che vive la quotidianità, normale e straordinaria al tempo stesso.

- La comunità è un “abitare condiviso e quotidiano” . le comunità (del CNCA, ma non solo) sono luoghi strutturati di relazioni e legami significativi tra le persone che la abitano. La comunità è un tempo di vita pensato,non è un “tempo neutro” sospeso tra storie spezzate. La comunità è un tempo significante per la storia del minore dove la relazione educativa è orientata a riconoscere l’unicità di quella storia e a dare significato a ciò che è accaduto per costruire nuovi significati per il presente e per il futuro.
Per questo diciamo che è la quotidianità dell’abitare condiviso il “setting” dell’educatore. Una quotidianità, un abitare condiviso, curato, pensato, ma casuale..perchè AMATO e ricercato con passione umana e professionale.
Questa nostra quotidianità nelle comunità ha come riferimento la quotidianità della famiglia: uno spazio che si fa casa, delle relazioni affettive che la abitano e la significano, la cura del particolare e dello specifico, uno spazio abitato a cui appartenere, un tempo strutturato: un mondo vivo e vitale.
La quotidianità nelle nostre comunità è esperienza di complementarietà tra le persone che la abitano, tra gli adulti (famiglia residente o educatori) e i bambini. La comunità educativa è a sua volta esperienza di un luogo dove si esprime “genitorialità simbolica” nei confronti dei bambini accolti (anche nelle comunità familiari, laddove si esprime invece genitorialità reale nei confronti dei propri figli..). Una genitorialità adulta che si occupa, si preoccupa, che educa, che tutela. Che assume responsabilità nei confronti del contesto sociale in cui abita e con cui si relaziona (e condivisa con il servizio sociale inviante e con l’AG minorile, stante l’attuale presenza in comunità di minorenni quasi esclusivamente con provvedimento TM).
Genitorialità e stabilità adulta. È una delle questioni importanti e di qualità. La stabilità di presenza e di relazione è obiettivo anche delle comunità educative:, èquipe stabili nel tempo, modello organizzativo che garantisce forti copresenze e ritualità simboliche (la presenza serale e mattutina degli stessi adulti..).contrasto al turn over…

- La comunità è dunque un sistema di relazioni affettivo-educative di senso, non un luogo neutro. Mi soffermo sul lavoro dell’educatore in comunità, perché spesso funzione maltratta e non compresa, scambiata per “tecnicismo vacuo”…(non mi soffermo sull’offesa che ..chi fa questo “mestiere lo fa per soldi” perché i livelli economici dei CCNL parlano da soli). Come CNCA ci siamo confrontati a lungo sulla figura dell’educatore di comunità, sulle sue peculiarità, sulle competenze necessarie, sulla sua formazione e sulla sua responsabilità nei processi di crescita.
E siamo convinti che quello dell’educatore è un lavoro che si può fare solo con grande passione per le persone. La professione dell’educatore di comunità si esprime nella capacità di saper integrare, quali elementi stessi della professionalità, la motivazione, la passione e la competenza nella strutturazione e gestione della relazione educativa.
E’ una professione che sta “tra cuore e titolo di studio” perché accogliere è costruire legami attraverso percorsi a volte lunghi, faticosi, pieni di insidie, ma necessari per crescere e realizzare evoluzioni importanti nella vita. Ma il cambiamento di un ragazzo dipende molto dalla capacità dell’educatore di stare nel cambiamento, di confrontarsi, di lavorare con fiducia, di sostenere futuro, di essere flessibile, di sapersi interrogare... Di fare – senza vergognarsi – “le cose di tutti i giorni” insieme ai nostri ragazzi quale funzione propria ed irrinunciabile della professione


• Qualche specificazione

- Bambini vittime di abusi. La comunità quale luogo di cura, di rispettosa “distanza”, di riequilibrio, di elaborazione …per “andare oltre”…
i bambini vittime di maltrattamento e abuso sono stati gravemente danneggiati sul piano emotivo, affettivo, relazionale e sono portatori di importanti sintomi a livello comportamentale. Tali problematiche possono essere affrontate e curate in un contesto caratterizzato da forte istanza di contenimento, con un’alta resistenza afli urti, con una buona capacità di comprendere, leggere, tollerare comportamenti inusitati e modalità relazionali distorte e anche da una moderata e calibrata attenta attivazione sul piano affettivo (non ti invado, non ti faccio fare “indigestione”, la giusta distanza)
Il CISMAI ha approfondito molto questa questione. In questi casi la comunità educativa viene considerata la risorsa elettiva, non un ripiego. Una risorsa in cui accompagnare ed accogliere il bambino nella fase iniziale dell’intervento di protezione, valutazione e cura..per po accompagnarlo “oltre”

Purchè sia una comunità “vera”: protegge – gestisce il sintomo – incide/forza i modelli operativi interni – si fa carico anche del genitore –calibra la vicinanza affettiva – è consapevole/gestisce il “triangolo drammatico: vittima/persecutore/salvatore”- è capace di de drammatizzare (anche dividendosi compiti e responsabilità all’interno dell’èquipe – promuove cambiamenti realisitici – accompagna “fuori” (FO-adozione-affido)
Purchè l’inserimento del bambini non si protragga nel tempo (inutilmente!)
Purchè si curi e si garantisca la formazione degli educatori (formazione sullo specifico del maltrattamento-abuso – supervisione.)
Purchè la comunità non sia lasciata sola a lavorare sulla singola situazione. La comunità può essere un contesto con valore terapeutico solo se fa parte di una rete “curante” che esiste all’interno della comunità, ma soprattutto all’esterno (sistema di corresponsabilità che fa DEISTITUZIONALIZZAZIONE)

- Famiglia di appoggio per ogni bambino in comunità. Le comunità sono luoghi aperti al territorio e dunque alla relazione con adulti significativi (amici, volontari..). con l’attenzione rispettosa della loro storia, dei bisogni, del momento della loro vita e di quella della loro famiglia d’origine… al progetto futuro..
Attenzione allora a non “generalizzare” …ciascuno ha diritto ad un progetto per sé..sempre rispettoso, attento, flessibile..
La famiglia d’appoggio è una grande risorsa, ma va pensata. Va preparata, va formata, va monitorata…
In comunità ci sono soprattutto ragazzi grandi (anche stranieri non accompagnati) per loro è importante, necessario per “costruire reti” di sostegno per l’avvio all’autonomia. ..per avere relazioni positive di sostegno, per non essere soli (..una sorta di zii)..
Questa è la sfida importantissima di cui dobbiamo farci carico, di cui le comunità devono farsi carico..e spesso restano gli educatori gli adulti di riferimento, comunque.
Di questa costruzione di reti relazionali spesso sono solo le comunità a farsene carico..


- Resilienza. Costruire resilienza è un obiettivo importante. Significa saper assumere con consapevolezza e competenza il paradigma che “valorizza le risorse” piuttosto che “presidiare le mancanze”…assumere l’obiettivo di “rinforzare le competenze” per essere in grado di “far fronte” e gestire l’equilibrio possibile senza la pretesa di “risolvere/guarire”, ma piuttosto di sostenere capacità di far fronte..
È un importante lavoro che le comunità, gli educatori fanno e sanno di dover fare…
Con i ragazzi grandi promuovere resilienza è obiettivo irrinunciabile, insieme alla costruzione delle reti e al mantenimento dei legami e delle relazioni positive (anche con gli educatori/adulti di riferimento)
LIVIANA MARELLI
 
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