La valorizzazione della dimensione relazionale tra gli operatori è determinata non solo dalla volontà e dalla predisposizione caratteriale dei singoli ma anche da precise scelte e assetti organizzativi. È anzi necessario mettere a fuoco la specificità organizzativa che caratterizza il contesto dei servizi sociali, socio-sanitari ed educativi ed in particolare la distinzione tra organizzazioni a legami deboli e organizzazioni a legami forti. Riferendosi ai servizi socio-sanitari (ed educativi) alcuni autori parlano di sistemi a legame debole (1) per indicare lo scarso collegamento tra le diverse parti del sistema. … non c’è relazione forte, certa e predeterminata tra input e risultato … il grado di prevedibilità che caratterizza i legami “forti” è tipico, ad esempio, della fabbrica dove un operaio ha un effetto “certo” su alcune operazioni in una catena di montaggio. In ambito socio-sanitario abbiamo legami deboli perché il comportamento di un operatore può comportare risultati diversi in persone diverse e, addirittura, risultati diversi nelle stesse persone a seconda del momento. Da tutto ciò ne consegue che gli operatori socio-sanitari, anche se devono sottostare a procedure e norme vincolanti, hanno un margine di autonomia molto elevato nella loro attività … Nessun dirigente potrà mai imporre davvero un progetto ai proprio operatori sociali … il tipo di leadership esistente all’interno delle organizzazioni a legami deboli è dunque assai diverso da quello in organizzazioni a legami forti. Non di rado, ad esempio, si osserva che formalizzazioni premature e i protocolli d’intesa realizzati a seguito di accordi politici tra i vertici delle organizzazioni, e non di condivisioni e intese sulle pratiche di lavoro degli operatori, si scontrano con inerzie e resistenze.
Da queste precisazioni scaturiscono alcune indicazioni di ordine pratico:
• in merito ai processi decisionali occorre fare il passaggio dalla razionalità gerarchico-lineare (basata sulla presenza di un centro decisionale che decide il percorso da seguire) alla pianificazione strategico-partecipativa, cioè ad un modello decisionale che lavora non tanto alla soluzione dei problemi bensì alle condizioni che ritiene possano favorirla, condizioni che promuovano modalità di interazione più efficace (in particolare sviluppando livelli comunicativi, di connessione e di coordinamento tra gli attori sociali, di dialogo continuo). L’idea di fondo è che nel lavoro sociale, le soluzioni, più che il prodotto di un processo razionale, siano il risultato di una buona interazione tra le parti in gioco. In questo senso l’approccio da sviluppare è eminentemente ecologico (2), punta cioè a coltivare le risorse di ogni persona, a rispettare la diversità e nello stesso tempo mantenere una coesione globale in modo che le persone possano agire insieme per un obiettivo comune.
• bisogna mettere in conto specifiche attività di team building, quali ad esempio percorsi di formazione congiunta in cui si coniughino l’approfondimento degli aspetti tecnico-metodologici e procedurali, con la costruzione di momenti di riflessività e di condivisione del senso dell’agire finanche ad arrivare momenti di vera e propria convivialità. Tali percorsi permettono inoltre di costruire dal basso linguaggi comuni, condivisi, univoci. Se la produzione scientifica nazionale ed internazionale facilità la costruzione di una tendenziale omogeneità di significati nella concettualizzazione dei bisogni dei minori, molto meno chiaro è il linguaggio che si riferisce al panorama dei servizi e degli strumenti di intervento.
• bisogna considerare la dimensione geografico/settoriale, puntando a favorire percorsi di confronto e avvicinamento innanzitutto tra quegli operatori che anche sul piano operativo sono impegnati verso i medesimi utenti/beneficiari. In quest’ottica la costruzione di micro-équipe territoriali che vedano il coinvolgimento degli operatori sociali, sanitari, educativi, culturali e sportivi, religiosi, … che operano nel medesimo “quartiere”.
• Occorre mettere in conto l’individuazione e valorizzazione dei piccoli gruppi spontanei che nascono al di fuori di canali formali. Occorrerebbe articolare la rete formale a partire da questa “geografia informale” (cd. mappa delle relazioni interpersonali).
• Occorre infine tenere presente la necessità di accompagnare il sistema con un’adeguata supervisione esterna che favorisca l’individuazione e il superamento di nodi-relazionali e aiuti l’équipe/gruppo/rete ad riflettere su se stessa e a saper evolvere positivamente.
(1) Weick K.E. (1976), Le organizzazioni scolastiche come sistemi a legame debole, in Zan S. (1988), Logiche di azione organizzativa, Il Mulino, Bologna; Zan S. (1992), Organizzazioni e rappresentanza, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
(2) Si prende a riferimento la “comunicazione ecologia”, metodo, ideato da Jerome Liss, tenta di trovare un equilibrio tra bisogni individuali e crescita della totalità. In particolare si affrontano le metodologie fondamentali per la creazione di una comunicazione democratica nel gruppo.
SPUNTI PER IL CONFRONTO
Quanto e come il metodo della pianificazione strategico-partecipativa è praticato in seno ai servizi socio-sanitari pubblici? E in seno al Terzo Settore? E in seno alla rete pubblico-no profit?
Quali le riflessioni, le buone prassi e i nodi sperimentati nell’ambito:
o del team building?
o delle micro-équipe (micro-gruppi, micro-reti) territoriali?
o dell’individuazione e valorizzazione dei piccoli gruppi spontanei?
o della supervisione esterna?