3. COSA INTENDIAMO PER COMUNITÀ?

Prosieguo del confronto sull'abbinamento minori/comunità realizzato da gennaio a maggio 2014 e rilanciato dal Convegno Nazionale di Studi del 15 maggio a Pompei. Per ogni argomento affrontato dal documento base del Convegno, è attivo nel presente Laboratorio un punto "ad hoc" nel quale inserire propri commenti, riflessioni, ...

3. COSA INTENDIAMO PER COMUNITÀ?

Messaggioda admin_affido » 02/06/2014, 14:12

Parlare di comunità di tipo familiare richiede molta chiarezza rispetto all’identità e alle caratteristiche che tali luoghi devono avere affinché sia impedita qualsiasi riedizione mascherata di forme di istituzionalizzazione. Va detto che attualmente – e nonostante le ripetute sollecitazioni di molti autorevoli istituzioni (dall’Osservatorio Nazionale Infanzia e Adolescenza, al Gruppo di Lavoro sul Monitoraggio dello stato di attuazione della Convenzione sui Diritti dell'Infanzia in Italia (cd. Gruppo CRC), allo stesso Garante Nazionale per l'Infanzia e l'Adolescenza) non sono ancora stati definiti a livello nazionale gli standard minimi e omogenei sull’intero territorio per le diverse tipologie di comunità a cui le singole Regioni devono far riferimento. Tale mancanza determina una condizione di grande difformità tra le Regioni in riferimento alle tipologie, alle professionalità, ai modelli organizzativi, al numero dei bambini/ragazzi accolti, alla denominazione stessa.
Ciò premesso è utile evidenziare due elementi costitutivi dell'identità di una comunità di tipo familiare, tratti da un intervento di Liviana Marelli al Convegno Nazionale di Studi promosso dal progetto famiglia nel maggio 2013 sul tema dell'accoglienza minorile:
• la comunità è CASA. É una casa tra le case. Confusa e confondibile nel contesto urbano ed organizzata in riferimento alle esigenze della famiglia allargata/numerosa che la abita. Una casa, con la cucina, il soggiorno, le camere da letto, lo spazio per i compiti, per i giochi, ... spazi personalizzati, in ordine e in disordine come nelle altre case, con camere arredate con gusti diversi, ... Una casa dove gli adulti si prendono cura della quotidianità (cucinano, fanno la spesa, dove non c’è la cucina centralizzata o la fornitura pasti). Una casa aperta, che accoglie amici, festeggia i compleanni, sta in relazione con gli altri (oratorio, parrocchia, scuola, scout, centri sportivi, palestre, ...). Una casa dove vengono le famiglie d’origine (quando è possibile), dove si incontra la famiglia affidataria e/o adottiva che accoglierà il bambino, dove ci sono dei volontari che incrociano la quotidianità dei bambini e fanno la rete di riferimento. Una casa che organizza le vacanze nei campeggi, in montagna, al mare dove vanno tutti, piccoli e grandi (adulti residenti e/o educatori). Una casa che vive la quotidianità, normale e straordinaria al tempo stesso. Uno spazio abitato a cui appartenere, un tempo strutturato, un mondo vivo e vitale.
• la comunità è GENITORIALITÀ STABILE e ADULTA. La comunità è esperienza di un luogo dove si esprime genitorialità nei confronti dei bambini accolti. Una genitorialità adulta che si occupa, si preoccupa, che educa, che tutela. Che assume responsabilità nei confronti del contesto sociale in cui abita e con cui si relaziona. Genitorialità e ... stabilità. Una delle questioni importanti e di qualità è la stabilità di presenza e di relazione degli operatori. Questo chiede, anche nelle comunità con operatori turnanti, di adottare modelli organizzativi che garantiscono forti copresenze e ritualità simboliche (ad es.: la presenza serale e mattutina degli stessi adulti). Chiede altresì l'adozione di modelli di contrasto al turn over degli operatori, quali ad esempio formule contrattuali che garantiscano la presenza di équipe stabili nel tempo.
Le comunità, in quanto caratterizzate da assetti organizzativi e relazionali analoghi a quelli di una famiglia, non vanno assolutamente considerate come luoghi affettivamente neutri. Il tempo trascorso in comunità è quindi un tempo pensato, non un tempo neutro sospeso tra storie spezzate.
Non trattandosi però di "normali famiglie", occorre interrogarsi sulle caratteristiche della funzione affettivo-relazionale che le comunità esprimono, in modo da rendere consapevole e mirata ogni scelta di inserimento in esse di un minore.
Le varie tipologie e forme di comunità esprimono diverse connotazioni relazionali a seconda di come sono organizzate. La mancanza di definizioni e indicazioni nazionali univoche e le diverse impostazioni adottate dalle normative regionali impediscono una disamina completa del fenomeno.
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Re: 3. COSA INTENDIAMO PER COMUNITÀ?

Messaggioda Karin » 24/06/2014, 21:42

Senza ombra di dubbio se in base al nostro ordinamento il minore ha bisogno di una famiglia e, solo in seconda battuta, di una comunità di accoglienza, quest'ultima dovrà ricalcare la forma emotiva, genitoriale, educativa e accuditiva di un nucleo famigliare. Purtroppo però, essendo comunque una forma istituzionalizzata e organizzata, necessariamente ha bisogno di linee guida nazionali cui far riferimento, flessibili ma chiare e perentorie dall'altra parte. E oggi non ci sono. E questo lascia ampio spazio al così detto "business" economico di cui spesso si parla intorno alle comunità di accoglienza e di chi ne fa parte.
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Re: 3. COSA INTENDIAMO PER COMUNITÀ?

Messaggioda MARIANNA GIORDANO » 30/06/2014, 19:56

Da anni il cismai propone un prospettiva tutelare nelle comunità in cui diventa preponderante un’idea di comunità come contesto in cui “poter esprimere la propria sofferenza” e “prepararsi a stare meglio”. Soprattutto vengono meno le istanze “ri-educative”: l’educatore accompagna e sostiene il bambino durante il percorso di chiarificazione del proprio progetto di vita, cogliendone la sofferenza e rispondendo ai bisogni di ascolto, cura e relazione.
La comunità che accoglie minori vittime di esperienze sfavorevoli – che sono la quasi totalità dei bambini ed adolescenti inseriti in strutture residenziali - si qualifica come un contesto capace di fornire al bambino la protezione dalle forme di abuso subite, l’accompagnamento più idoneo nelle varie fasi dell’intervento previsto dal progetto di rete, e il sostegno funzionale al superamento delle condizioni di pregiudizio vissute. (Riflessione condivisa tra la presidenza Cismai, Marianna Giordano, Dario Merlino, Monica Procentese, Fedele Salvatore)
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