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(Doc. Sintesi) Lab.1: “Affido, prevenzione, ...”

MessaggioInviato: 23/05/2013, 3:40
da Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online
“Affido, prevenzione e inclusione sociale”
Documento di sintesi elaborato da Progetto Famiglia sulla base dei contributi giunti nel Forum entro il 16.05.2013


1. AFFIDO, INTERVENTO PREVENTIVO O TARDO-RIPARATIVO?
L’impianto complessivo della legge 184/83, ed in particolare le modifiche introdotte nel 2001 dalla legge 149, concepiscono l’affidamento familiare innanzitutto come un intervento di prevenzione del disagio minorile e familiare, basato sul consenso dei genitori, e “solo in seconda battuta” come un intervento coercitivo messo in atto dal Tribunale per i minorenni.
Di segno contrario appaiono invece i dati messi in evidenza dalle “prime risultanze” della recente indagine del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (diffusi nel novembre 2012) i quali presentano la tendenza a realizzare gli interventi di accoglienza con una modalità tardo-riparativa, limitata a “tamponare” le situazioni di grave crisi familiare e a “mettere in sicurezza” i bambini mediante provvedimenti d’urgenza (nel 26% dei casi, con punte di oltre il 35% in alcune Regioni). I dati mettono in evidenza anche la marcata incidenza degli affidamenti giudiziali (69% del totale, che diventa il 79% se analizziamo i soli affidamenti etero-familiari), disposti in via coatta dai Tribunali per i minorenni, segno della forte difficoltà a lavorare sul “consenso” dei genitori in difficoltà.
Ne consegue che l’affidamento familiare acquisisce caratteristiche:
- specialistico-terapeutiche: sia perché l’importanza del disagio (o addirittura del danno) subito dal minore spesso è tale da richiedere intensi interventi da parte di professionisti esperti, sia perché la stessa famiglia affidataria, non potendo nel più dei casi investire sul rapporto con la famiglia naturale (in quanto questa è contraria all’affido), finisce con il perdere di vista il contesto comunitario di origine del minore e con il diventare una sorta di “specialista dell’accoglienza dei bambini”;
- legal-burocratiche: la presenza di disposizioni giudiziali cui attenersi, la non rara contrazione della potestà genitoriale, il bisogno di valutare il tenore e gli esiti del percorso di recupero dei familiari del bambino, la frequente ostilità verso l’affido che si sviluppa nella famiglia di origine, accentuano inevitabilmente la funzione di vigilanza svolta dagli operatori, in un meccanismo che finisce con l’avere caratteristiche più di controllo-verifica che di promozione-sostegno (e nel quale anche affidatari e associazioni familiari finiscono in un ruolo distorto, che oscilla tra l’essere co-controllati dai servizi e il porsi come co-controllori della famiglia naturale);
A queste condizioni l’affidamento familiare è destinato a non svilupparsi affatto. L’esperienza di trent’anni anni di affidamento familiare in Italia ci dice che, se poche sono le famiglie disponibili a impegnarsi in un percorso di affidamento giudiziale, addirittura rare sono quelle disposte a continuare a farlo dopo la prima (spesso estenuante) esperienza. Occorre giocare d’anticipo, agendo prima che i problemi s’incancreniscano, spostando l’asse dell’affidamento familiare verso una dimensione incentrata sul consenso della famiglia di origine, sulla collaborazione tra questa e la famiglia affidataria, … Insieme con l’ANFAA – Associazione Nazionale Famiglia Adottive e Affidatarie, ci sentiamo di poter affermare che «è un controsenso puntare sugli affidamenti difficili quando spesso non si promuovono e realizzano quelli normali» .
L’affidamento deve dunque acquisire sempre più caratteristiche di tipo:
- preventivo (anziché di cura), evitando l’esacerbarsi del disagio, a vantaggio del minore, della famiglia di origine e dell’intero sistema sociale;
- consensual-comunitario (anziché specialistico), in cui il punto di forza deve essere costituito dal senso di solidarietà e di vicinanza percepito dai genitori naturali e concretamente agito dagli affidatari, dalla comunità e dai servizi. Occorre sviluppare percorsi caratterizzati il più possibile dalla “normalità”, che agiscono su problematiche affrontabili da famiglie ordinarie (riducendo la quota percentuale di affidamenti percorribili solo da famiglie speciali o, addirittura, specialiste);
- promozionale (anziché legal-burocratico), in cui il ruolo del servizio pubblico venga per lo più assorbito dalle azioni d’informazione e formazione delle famiglie, da interventi di animazione comunitaria e di sensibilizzazione, da un lavoro di «reticolazione comunitaria» e di «community development» che favorisca l’organizzazione di forme leggere di prossimità (quali quelle veicolate ad esempio dalle esperienze delle “banche del tempo”) e lo sviluppo di reti locali d’intervento (capaci di coinvolgere agenzie come la scuola, l’associazionismo, le parrocchie, …). Un ruolo che sempre più diviene di partnership piena con le realtà no-profit impegnate nel campo, nella consapevolezza che «ci vuole tutta una città per crescere un bambino» .

2. AFFIDAMENTO CONSENSUALE. COSTRUZIONE DELLA FIDUCIA E VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE.
Quando ha luogo un affidamento residenziale la famiglia d’origine “soffre necessariamente”, per l'allontanamento del figlio. Ci vuole un lavoro professionale serio, capace di motivare al cambiamento, di infondere fiducia nel futuro, di far intravvedere la conclusione del percorso. In questo scenario lo sviluppo di “interventi consensuali”, cioè condivisi dai genitori, è particolarmente importante. L'affidamento, per poter essere consensuale, deve essere preceduto da un intenso lavoro del Servizio sociale territoriale che deve conquistare la fiducia della famiglia inviante. La famiglia deve percepire il Servizio come suo alleato nel progetto volto al supermento della situazione di disagio che attraversa. Non è un lavoro semplice e richiede investimento di tempo (quindi risorse) e di formazione. Lavorare preventivamente aiutando la famiglia a cogliere il vantaggio di un affido eterofamiliare o anche di una famiglia d'appoggio, richiede infatti molte risorse di tempo ed energia, nonché una rete di professionisti che lavori in sinergia per aiutare ciascuno a comprendere il proprio ruolo, nel cambiamento auspicato. Per favorire lo sviluppo dell'affido consensuale è importante lavorare sulla crescita dei legami di quartiere, affinché la famiglia che ha bisogno di sostegno sia inserita in una rete feriale di socialità ed entri in relazione con coloro che possono fornirle un appoggio educativo. Occorre inoltre sapersi mettere in collegamento con coloro che fanno parte di aggregazioni spontanee, associazioni sportive, di volontariato sociale, ma anche politiche e culturali, in quanto tali appartenenze sono espressione di una sensibilità pro-sociale.
Sollecitare collaborazioni mirate, all’interno di queste esperienze già in atto, comuni a tutti gli ambienti sociali, significa coagulare un micro-sistema dedicato alla cura del benessere comune. Questa “rete” non è automatica, va costruita e ne va fatta costante manutenzione. In quest’ottica dunque l’affido consensuale appare possibile solo quando investiamo autenticamente su una dimensione comunitaria.
L’affido consensuale è tuttavia realizzabile solo quando:
• i genitori sono disponibili a riconoscere i problemi ed a farsi aiutare;
• si compie una valutazione approfondita sui problemi e si costruisce comunque un progetto articolato di supporto ai bambini ed ai genitori.
A tal riguardo occorre evidenziare un nodo critico: spesso non si riesce a lavorare per ingaggiare i genitori nel riconoscere i problemi e le sofferenze dei loro figli; non di rado si cerca il consenso perché “fa fatica” il considerare come i genitori possono non essere disponibili a vedere i problemi ed a farsi aiutare; a volte ci si illude della consensualità e questo paralizza successivamente gli interventi perché non si compie una valutazione dei problemi e quindi il progetto viene falsato. Per questi motivi la valutazione delle competenze genitoriali è indispensabile prima di ogni tipo di affido. Anche gli affidi intra-familiari, generalmente consensuali, sono spesso una trappola perché una mancata conoscenza/valutazione della famiglia fa sì che i bambini divengano ostaggio di conflitti precedenti. Tanto che a volte l'affido si deve poi trasformare in giudiziale.

3. L’AFFIDO CHE NON SEPARA: L’ACCOGLIENZA FAMILIARE DIURNA
L’articolo 1 della legge 184/83 e ss.mm. afferma con chiarezza che prima di giungere all’allontanamento del minore dal suo nucleo familiare, occorre realizzare tutti gli interventi possibili di sostegno alla famiglia per permettere il superamento delle difficoltà senza interrompere la convivenza del figlio. Molto eloquente il primo comma: «il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia». Cosa si fa concretamente per tutelare tale diritto? Uno degli indicatori che può offrire la misura della ridotta attenzione data a questo aspetto è il numero degli affidamenti diurni, espressione “ultima” (dal punto di vista logico e cronologico) dell’ampia scala dei possibili interventi di sostegno alla famiglia di origine, nel quale pur giungendo alla decisione di individuare “figure adulte integrative di quelle genitoriali”, si punta a far ciò senza allontanare il minore. Purtroppo la recente indagine del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali non ha affatto esplorato il mondo degli affidamenti diurni. Infatti il principio dell’aiuto alla famiglia di origine, pur essendo sempre valido, per gli affidamenti residenziali è spesso (ed è una grave omissione) trascurato e messo in ombra dal preminente lavoro sul minore e sul contesto che lo accoglie, cioè sulla famiglia affidataria. Le “accoglienze” diurne, invece, caratterizzate dal quotidiano contatto del minore con le due famiglie - quella naturale e quella affidataria - richiedono necessariamente un significativo lavoro su entrambi i contesti familiari: un lavoro a favore del bambino, senza smettere di sostenere la famiglia di origine. Viene in soccorso un’indagine realizzata da Progetto Famiglia nella primavera del 2009 in Campania, la quale ha messo in luce che su 24 ambiti territoriali intervistati (poco meno della metà del territorio regionale) solo 2 avevano attivato percorsi di affidamento diurno, cioè solo l’8% . Senza voler prendere la Campania a riferimento generale, certo occorre rilevare che in molti territori si passa direttamente dal “sostegno alla genitorialità” all’intervento di “allontanamento del minore”, saltando la preziosa forma intermedia degli affidamenti part-time. E questo nonostante che la quasi totalità dei regolamenti e delle linee di indirizzo regionali prevedano esplicitamente questa forma di intervento.
Ove effettivamente e correttamente praticato, l’affidamento familiare diurno, mostra tutta la sua potenzialità. Esso infatti permette il supporto del minore e della sua famiglia in difficoltà, senza allontanarlo da casa, offrendogli un appoggio quotidiano o comunque significativo nell'arco della settimana, tale da garantirgli un importante riferimento educativo ed affettivo, utile nel suo processo di crescita. Allo stesso modo l’instaurarsi di relazioni positive tra la famiglia naturale e la famiglia affidataria rappresenta un’opportunità per tutti i soggetti coinvolti.
L’affidamento diurno ha alcune caratteristiche peculiari:
• vicinanza territoriale: deve mantenere il minore nel proprio ambito di vita e di relazioni sociali (scuola, parenti, amici, ecc.);
• regolarità: deve prevedere tempi e luoghi stabiliti ed organizzati durante la settimana, in modo da offrire un punto di riferimento significativo al minore ed alla sua famiglia;
• continuità: deve consistere in un intervento che si protrae per un tempo significativo che permetta alla famiglia del minore il superamento delle sue difficoltà e che permetta altresì l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e di collaborazione tra le due famiglie;
• affiancamento alle figure genitoriali: gli affidatari accompagnano e sostengono il minore e la sua famiglia riconoscendo a quest’ultima il proprio ruolo genitoriale a tutti gli effetti.
Anche con l’affido diurno è fondamentale curare l’abbinamento minore - famiglia affidataria incastrando i bisogni e le caratteristiche del minore e della famiglia di origine con le risorse e le caratteristiche della famiglia affidataria. È quindi fondamentale decidere se una particolare famiglia è in grado di rispondere alle esigenze e alle caratteristiche particolari del minore e della sua famiglia (età e caratteristiche temperamentali del minore, storia del minore e della sua famiglia, …). Bisogna tenere in considerazione che il minore verrà a trovarsi tra due realtà familiari che non possono essere simili, per ovvie ragioni, ma che non potranno essere eccessivamente distanti in quanto il minore non può vivere lo stress di rapporti intimi ed intensi con famiglie che si presentano come reciprocamente “disconfermanti”. È importante che non ci sia un divario notevole tra le condizioni socio-economiche e culturali tra le famiglie in quanto se il bambino deve affrontare orientamenti e valori promossi dalla famiglia affidataria troppo diversi da quelli del contesto di provenienza, è probabile che si senta smarrito e in conflitto rispetto ai valori da perseguire.

4. L’INCLUSIONE SOCIALE DELLE FAMIGLIE CON DIFFICOLTÀ EDUCATIVE
La lettura combinata degli articoli 1 e 2 della legge 184/83 mette in evidenza che l’allontanamento dei minori dal loro nucleo familiare è realizzabile soltanto dopo aver posto in essere interventi di sostegno e aiuto economico (art. 1, comma 2) e di ogni altro tipo (art. 1, comma 3) ed averne riscontrato l’inefficacia. Fanno eccezione a ciò i soli casi di “necessità ed urgenza” (art.2, comma 3). Secondo questi criteri le risultanze statistiche dovrebbero evidenziare una situazione a piramide, nella quale la fascia numericamente più nutrita dovrebbe essere quella del “sostegno alle famiglie a rischio” finalizzato alla prevenzione degli allontanamenti. Sempre più forte è la consapevolezza di dover “cambiare registro”. Vari sono i segnali in tal senso. Se ne citano alcuni:
• la scelta della Regione Veneto di allargare il tema dell’accoglienza familiare, istituendo i CASF – Centri per l’affido e la solidarietà familiare, ciascuno dei quali: «si colloca in una dimensione di confine tra il mondo dei servizi e il territorio, la comunità locale. Mantiene sempre l’ottica della promozione del territorio, è attivatore di processi … mantiene alta un’idea ampia di accoglienza … il sostegno a progetti di prossimità … di vicinanza solidale» ;
• la scelta, compiuta dalle recenti linee nazionali di indirizzo per l’affidamento familiare, di inquadrare i progetti di affido come “paragrafi” di più ampi “progetti quadro” di presa in carico dell’intero nucleo familiare;
• il programma P.I.P.P.I. (Programma di Intervento per la prevenzione dell’istituzionalizzazione) promosso dal Mistero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con il supporto tecnico del LABRIEF (Laboratorio di ricerca e intervento in educazione familiare) dell’Università degli Studi di Padova, il quale prevede interventi intensivi su 100 nuclei familiari (di 10 diverse città d’Italia) e mira ad «individuare, sperimentare, monitorare, valutare e codificare un approccio intensivo, continuo, flessibile, ma allo stesso tempo strutturato, di presa in carico del nucleo familiare, capace di ridurre significativamente i rischi di allontanamento del bambino o del ragazzo dalla famiglia di origine e/o di rendere l'allontanamento, quando necessario, un'azione fortemente limitata nel tempo facilitando i processi di riunificazione familiare» .
La grande varietà dei disagi e delle difficoltà di cui le famiglie sono portatrici chiede che gli operatori sociali sappiano essere come i “buoni artigiani” di Mills, i quali scelgono «di volta in volta quale procedimento seguire» .
Ciò detto, va comunque rilevato:
• che il lavoro preventivo di sostegno alla genitorialità spesso è reso difficile dalla presenza nei servizi di un numero esiguo di operatori e di professionalità, il che non rende sempre possibile realizzare prese in carico "sufficientemente buone". In queste situazioni, la decisione di procedere ad un affidamento residenziale viene presa quasi sempre come ultimo drastico epilogo, spesso dopo anni di così detti "interventi tampone" che riescono ad incidere spesso non sufficientemente su situazioni di pregiudizio medio-grave;
• che spesso l’intervento sociale è solo successivo alla decisione del giudice minorile. Domandiamoci: perché ai servizi arrivano sempre più situazioni familiari con difficoltà gravi e complesse per le quali è difficile dare un aiuto adeguato? Perché una quota importante degli interventi sociali è d’urgenza (ex art. 403 del codice civile)? Un adeguato lavoro di inclusione e di prevenzione del disagio conclamato presuppone la “capacità di vedere” con precocità le situazioni di difficoltà emergente. La casistica mostra come, il più delle volte, ai servizi sociali, arrivino segnalazioni relative a persone ormai in stato avanzato di disagio. Un efficace sistema di “rilevazione preventiva” potrà essere sviluppato solo in stretta sinergia con gli altri attori territoriali, istituzionali e non (scuole, medicina di base, parrocchie, associazioni sportive, …), fino ad arrivare ai singoli cittadini. Si tratta infatti di coinvolgere la società civile in una assunzione di responsabilità che si sostanzi tanto nell’agire solidale quanto nell’osservazione della vulnerabilità familiare. Pre-condizione di tali attivazioni sarà la realizzazione di un’opera di informazione e di sensibilizzazione nel contesto territoriale. Talvolta nel quartiere, nell’ambiente di vita comune è percepito il disagio di minori o di intere famiglie, ma manca la consapevolezza del cosa fare, come muoversi, a chi rivolgersi. Occorre articolare compiutamente una adeguata strategia di rilevazione-valutazione-intervento.

5. FAMIGLIE INSIEME
I riscontri empirici fanno notare come vi siano molte famiglie schiacciate dalla solitudine e disorientate di fronte alle difficoltà quotidiane. C’è una frase di don Antonio Mazzi , assai significativa: «il disagio è effetto, non causa» . Effetto di tanti avvenimenti e vicende ma, soprattutto, effetto della solitudine. Don Mazzi ne parla facendo riferimento ai tossicodipendenti. Si tratta tuttavia di un concetto a valenza universale e quindi applicabile anche al campo delle famiglie in difficoltà. Ad uno sguardo attento e libero da pregiudizi appare chiaro che la causa del disagio di molte famiglie è il loro essere “escluse” e, ancora prima, il loro essere semplicemente “famiglie sole”. Questo ci permette di affermare che la lotta al disagio familiare e minorile è la lotta alla solitudine non solo dei bambini e dei ragazzi, ma anche delle loro famiglie. In molti servizi si sta sperimentando una forma di affidamento che affianca una famiglia ad un’altra famiglia che ha dei problemi. Questo tipo di sostegno si rivela sovente efficace e soprattutto preventivo di disagio più conclamato. Secondo questa traiettoria l’attivazione di una rete di reciprocità tra famiglie può divenire un’importante risorsa per favorire l’affrancamento dalle situazioni di disagio relazionale e sociale che investono le cd. “famiglie di origine”. Uno spunto interessante viene offerto da una pubblicazione della rete dei volontari Salesiani sul tema della solidarietà familiare nella quale sono offerti alcuni importanti spunti: «il primo passo per risolvere una situazione di disagio è aiutare ogni membro della famiglia a riconquistare la propria dignità (…) È all’interno di una relazione confidenziale tra pari, da famiglia a famiglia, che possono essere cercati ed espressi gesti e contenuti che aiutano a recuperare e favorire il protagonismo personale e familiare di chi vive in situazioni di disagio (…) Le “famiglie difficili” nel momento in cui sono considerate non utenti ma partner sono messe nella condizione di agire come soggetti sociali …». In questo scenario le modalità di intervento vanno reinventate o ricostruite: “Famiglie Vicine”; “Famiglia Aiuta Famiglia”; “Part-time leggeri”, anche solo per il fine settimana; “Spazi liberi di incontro e gioco” dove le mamme o i papà si incontrano con i bambini e scambiano esperienze; “Incontri attraverso la scuola” che sfociano in merenda o compiti insieme; … Molto eloquente lo slogan sperimentato nel contesto torinese: “dare una famiglia ad un’altra famiglia”: offrire accompagnamento, prossimità, vicinanza alle famiglie in situazioni di difficoltà educative, prima che le difficoltà stesse si trasformino in disagio conclamato. Lo scopo è quello di tenere la famiglia unita, di crearle attorno legami significativi e di sostenerla nell’assunzione delle proprie responsabilità educative e familiari. I genitori attraverso la vicinanza di “famiglia solidali” disponibili ad aiutare senza giudicare, sono incoraggiati verso l’autonomia, la tranquillità, la fiducia, l’assolvimento adeguato delle proprie responsabilità educative e familiari e capaci di una propria progettualità familiare. I figli “respirano” attenzione, solidarietà, affetto nella famiglia che affianca la loro e vedono i loro genitori sostenuti ed apprezzati.

6. OLTRE LA DICOTOMIA BENEFATTORE-BENEFICIARIO
Bisogna orientare il modello di accoglienza delle problematiche educative in un’ottica di condivisione della vulnerabilità e della fragilità intesa come inevitabile condizione esistenziale comune, non come una riprovevole o addirittura colpevole situazione di rischio da scampare e di cui aver paura. Da scampare semmai è la condizione di marginalità, lo stigma, fonte di sofferenza per chi, sentendosi drammaticamente escluso, rischia anche l’equilibrio psichico. Tante volte ci si trova di fronte a donne, in particolare madri, che portano con loro un vissuto di deprivazione che le induce a non riconoscere i bisogni dei loro bambini ma a richiedere esse stesse una sorta di "affido". Non escludendo la figura maschile che quando è presente porta spesso gli stessi bisogni però poco esplicitati per condizionamenti dovuti soprattutto a modelli culturali. Il rischio con la rete di famiglie è che prevalga nelle famiglie che sostengono un'attenzione troppo centrata sui bisogni del minore, che fa perdere di vista l'evidenza di una sofferenza genitoriale che non è in se una colpa, ma una conseguenza di un vissuto negativo che si riflette nella capacità di espressione delle risorse genitoriali. L'operatore deve per questo essere una sorta di facilitatore che può consentire una comprensione delle dinamiche che sono alla base di atteggiamenti inadeguati.
Occorre inoltre farsi promotori di un lavoro di costruzione di spazi aggregativi permanenti tra famiglie, in micro-contesti sociali circoscritti (parrocchia, rione, ...), finalizzati alla promozione di forme di aggregazione capaci di stimolare rapporti di fiducia, di consolidare l’appartenenza comunitaria e l’attivazione di reti di vicinanza. L’assioma di fondo è quello del superamento della dicotomia “famiglia-risorsa”/”famiglia-bisogno” (che sottende un approccio clinico) a favore di un nuovo approccio in cui più famiglie insieme si concepiscono “alla pari” e puntano a valorizzare “la relazione”, aldilà delle etichette del disadattamento sociale. Un approccio “non formale” ed eminentemente preventivo, che si incentra sulla convinzione che ogni persona, anche la più disagiata o problematica, ha insito in sé un potenziale relazionale: è cioè capace di mettersi in relazione. Tale approccio è prodromo di partecipazione sociale attiva e di superamento dell’assistenzialismo e della dipendenza. Per poter incontrare veramente chi vive nel bisogno, bisogna che noi stessi si calchi il terreno del bisogno, in modo che tale suolo diventi a noi familiare e non più estraneo, e che sia “normale e spontaneo” intervenire, giacché vi si parla un linguaggio noto. Questo approccio elimina atteggiamenti di beneficenza: non c’è più un “up” e un “down”, si è tutti sullo stesso livello, a scambiarsi beni e relazioni.


HANNO CONTRIBUITO AI CONTENUTI DEL LABORATORIO 1 del FORUM ONLINE
• Andreoni Roberto, Macerata, pedagogista ass. affidatari La Goccia – Macerata, Docente pedagogia della marginalità presso l’Università “Carlo Bo” di Urbino
• Antoniello Mariagrazia, Salerno, assistente sociale presso l’Istituto per ciechi “Domenico Martuscielli” di Napoli
• Columbu Pilar, Pisa, portavoce del Coordinamento “Ubi Minor” Toscana e referente in seno al Tavolo Nazionale Affido
• Ceglia Annalisa, Borgarello (PV), psicologa del progetto affido “Per un fratello in più” - Fondazione L'Albero della Vita
• De Bastiani Walter,Treviso, volontario Ass. "Strada facendo" - Castelfranco Veneto
• Del Giudice Giuseppe, Pavia, assistente sociale, coordinatore affido familiare Ufficio Piano di zona di Mortara (PV)
• Forzoni Paola, Arezzo, affidataria, socia dell'Associazione Codice ADAF
• Ganio Mego Giuseppina, Torino, affidataria, già assistente sociale, referente ambito affido di Caritas e Ufficio Famiglia Diocesano di Torino, Consigliere onorario Corte d'Appello sez. minorenni Torino
• Giordano Marianna, Napoli, assistente sociale, referente CISMAI Regione Campania, socio fondatore cooperativa L’Orsa Maggiore, membro équipe Istituto G. Toniolo di Napoli
• Mura Marianna, Sarno, psicologa, membro équipe affido della federazione Progetto Famiglia
• Scariati Francesca, Salerno, assistente sociale comunale, membro servizio affidi territoriale
• Salvio Maddalena, Salerno, assistente sociale Centro Diurno Integrato "Giovanni Caressa" dell’ANFASS
• Vanoni Alda, Milano, affidataria, già giudice minorile togato, referente dell’Ass. Famiglie per l’Accoglienza in seno al Tavolo Nazionale Affido, membro commissione nazionale “Diritto e relazioni familiari” del Forum delle Associazioni Familiari
• Vastola Speranza, Napoli, assistente sociale consulente ambito sociale N11 di Nola

BUONE PRASSI CITATE NEL FORUM
Comune di Torino (Delibera 200308933/019, esecutiva dal 23/11/03)
Provincia di Macerata (in attuazione della Delibera Regionale 1216/2012)