(Doc. Sintesi) Lab.2: “Affido, case famiglia, ...”

Sintesi elaborate da Progetto Famiglia come "Documenti Base" preparatori del Convegno del 17 maggio 2013.

(Doc. Sintesi) Lab.2: “Affido, case famiglia, ...”

Messaggioda Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online » 23/05/2013, 3:37

“Affido, case famiglia, comunità educative: base affettiva, attaccamento, resilienza”
Documento di sintesi elaborato da Progetto Famiglia sulla base dei contributi giunti nel Forum entro il 16.05.2013

1. ACCOGLIENZA, RELAZIONI SIGNIFICATIVE, M.O.I. E RESILIENZA
La legge 149/01 nel modificare la legge 184/83 ha integrato l’elenco dei compiti degli affidatari (e, per analogia, delle comunità educative) aggiungendo alle già previste funzioni di «mantenimento, l’educazione, l’istruzione», anche il compito di assicurare al minore «le relazioni affettive di cui egli ha bisogno» (art. 2, comma 1). Così facendo il legislatore ha inteso evidenziare lo “specifico relazionale” delle forme di accoglienza familiare (affidamento familiare o inserimento in comunità educativa), atteso che le altre funzioni sarebbero potute essere assolte anche dagli istituti educativo-assistenziali che si è invece scelto di “superare” entro il 31.12.2006 (art. 2, comma 4), cosa che è poi effettivamente avvenuta.
Si è quindi introdotto, nel quadro delle norme che regolano la tutela minorile, quell’ampio filone di ricerca e riflessione psico-pedagogica che nel tempo ha dato adeguata evidenza al profondo bisogno che bambini e ragazzi hanno di poter intessere relazioni significative con adulti positivi, che permettano loro di sperimentare attaccamenti affettivi funzionali e una «base sicura» . In quest’ottica l’accoglienza familiare può configurarsi come potenziale “fattore di resilienza” (cioè come un’esperienza che permette a ragazzi segnati da esperienze di disagio e deprivazione, di sviluppare, se adeguatamente sostenuti, nuove energie per fronteggiare le situazioni sfavorevoli), e di “ristrutturare” il proprio M.O.I. (Modello Operativo Interno) e la connessa immagine che i minori (e le persone tutte) hanno di se stessi, degli altri, del mondo. Come sostiene anche G. Cambiaso «se riteniamo infatti, che nella maggior parte dei casi, uno dei danni più pesanti ricevuto dal bambino nella sua famiglia d’origine sia quello di non aver potuto sperimentare una relazione d’accudimento supportiva e rassicurante, è proprio nel risanamento di questa carenza che consiste la principale funzione della famiglia affidataria e/o dei nuovi punti di riferimento adulti incontrati dal minore, in grado di fornire cure e protezione adeguate e promuovere la riparazione». È scientificamente dimostrato che, a fronte di eventi e situazioni difficili in cui imperversano vissuti ed esperienze di trascuratezza, violenza, solitudine, paure, rabbia, disorientamento si può e, quindi, si deve lavorare per aiutare bambini ed adulti non solo a “resistere” ma anche a “ricostruire” la propria dimensione, il proprio percorso di vita, trovando una nuova chiave di lettura di sé, degli altri e del mondo, scoprendo una nuova forza per superare le avversità. Occorre però tenere presente che la possibilità di ri-significare le esperienze finanche a farle divenire attivatrici di un nuovo modo di pensare/realizzare sé nel mondo, a partire dalla possibilità di incontri autentici, ha a che fare con processi che sono fondamentalmente individuali, si costruiscono nella persona in base alla personalità, ai modelli relazionali e di attaccamento sperimentati precedentemente e agli eventi di vita vissuti, pertanto il processo di resilienza si realizza differentemente in ciascuno. Non esiste un modo per aiutare tutti alla stessa maniera! Quanti adulti e quanti bambini troppo precocemente hanno costruito un’idea di sé come incompetenti, incapaci, immeritevoli di amore e di attenzioni! E a partire da questo, per quanti ragazzi e ragazze che hanno sperimentato separazioni, allontanamenti, abbandono, rifiuto, incontrare qualcuno che le “veda” e le “in-contri” nei propri bisogni, le accolga, a fronte di esperienze pregresse di rifiuto non attiva automaticamente ed immediatamente risanamento! “Vedere” in tal senso sia per gli operatori che per le famiglie accoglienti significa “essere pronti a vedere” il bisogno celato, ma presente, negli atteggiamenti di oppositivi, di diffidenza e di messa alla prova che tanti bambini ed adulti in difficoltà agiscono nei confronti di chi gli si avvicina. Occorre custodire dentro, sempre, una “meta-visione” che orienta i passi e li sostiene, anche nei momenti bui, una visione superiore che permette di accogliere e fronteggiare le crisi, interpretandole in chiave evolutiva.

2. QUANDO IN AFFIDO FAMILIARE E QUANDO IN COMUNITÀ?
La legge 184/83, così come modificata dalla legge 149/01, nel medesimo articolo che decreta il superamento del ricorso agli istituti (art. 2), sancisce che i minori per i quali «non sia possibile l’affidamento» debbano essere inseriti in «comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia». Questa breve e densa indicazione legislativa suscita alcune questioni di grande rilevanza, sia di ordine pratico che di respiro valoriale-culturale. La legge intende introdurre un favor verso l’affidamento dei minori alle famiglie rispetto all’inserimento nelle comunità? A nostro avviso l’unica vera preferenza compiuta dalla legge è quello verso l’interesse del minore, da considerarsi sempre preminente. L’inserimento in famiglia va preferito nella misura in cui risponde a tale interesse. Se è universalmente condiviso che, in condizioni di normalità, è bene che i minori stiano in famiglia (la loro famiglia), occorre rilevare che qui siamo di fronte a situazioni segnate da gravi deprivazioni tali da ingenerare sofferenze e bisogni di carattere straordinario rispetto ai quali non sempre le famiglie sono dotate di adeguati strumenti di risposta. È a questi bisogni, considerati non in astratto ma nello specifico di ogni singolo minore, che occorre guardare per offrirgli la forma di accoglienza maggiormente “adatta a lui”. Ogni decisione deve essere children’s needs led, cioè, appunto, centrata sui bisogni dei minori e non sulle scelte, sensibilità ed esigenze dei vari adulti in gioco (famiglia di origine, operatori socio-sanitari, famiglie affidatarie, comunità residenziali, …).
In quest’ottica per “impossibilità di affidamento” bisogna intendere non – come invece ancora sovente avviene – la mancanza di servizi affidi e/o di famiglie disponibili alla realizzazione dell’affidamento stesso (il che ci porterebbe a pensare che in presenza di adeguati servizi e famiglie occorrerebbe procedere sempre, de plano, con l’affidamento in famiglia), bensì l’eventualità che a fronte degli specifici bisogni di cui un dato minore è portatore, l’affidamento familiare potrebbe essere “meno adeguato” dell’inserimento in comunità familiare. Più che di favor, occorre dunque parlare di specificum dell’affido, come anche di specificum delle comunità, o meglio ancora, di ciascuna tipologia di comunità, per poterne abbinare consapevolmente le caratteristiche con quelle dei minori bisognosi di accoglienza. Accogliere le persone e le storie, significa quindi abbandonare stereotipi e pregiudizi per costruire pazientemente “la risposta” per quel bambino, quel ragazzo, quella famiglia, quell’adulto. La risposta quale “diritto al progetto per sé”. In questo contesto di senso, occorre pensare ad implementare la filiera delle opportunità (affido familiare, case famiglia, comunità educative, … ma anche educativa domiciliare, sostegno alle funzioni genitoriali, …) e delle relazioni sinergiche tra le diverse opportunità proprio per permettere pluralità di risposte, attente, pensate, progettate, verificate. Implementazione e sinergia che saranno tanto più efficaci quanto più si avrà consapevolezza delle specificità di ciascuna forma di intervento e dell’interdipendenza con le altre forme.

3. GLI “STANDARD AFFETTIVI” DELLE COMUNITÀ CON FAMIGLIA RESIDENTE E DELLE COMUNITÀ CON OPERATORI TURNANTI
Premesso quanto sopra, le “comunità”, proprio in quanto “caratterizzate da assetti organizzativi e relazionali analoghi a quelli di una famiglia”, non possono essere considerati dei “luoghi affettivamente neutri”. Occorre tuttavia interrogarsi su quali siano gli “standard affettivi” di tali comunità, approfondendo la diversa “connotazione relazionale” che caratterizza le varie tipologie e forme in cui una comunità può essere organizzata. La mancanza di definizioni e indicazioni nazionali univoche e le diverse impostazioni adottate dalle normative regionali impediscono una disamina completa del fenomeno. Ad uno sguardo complessivo riteniamo tuttavia possibile individuare due marco-tipologie “relazionali” a seconda che sia presente o assente la relazione di convivenza tra accolti e accoglienti. Le comunità che offrono una relazione di convivenza tra accolti e accoglienti (sovente integrata dalla presenza di operatori specializzati turnanti) a seconda del sistema relazionale che offrono, sono da distinguere a loro volta in:
• comunità con famiglia residente, caratterizzata dalla presenza di una coppia di adulti legati da una relazione affettiva stabile (nella maggior parte dei casi si tratta di una coppia di coniugi) e dalla presenza dei figli della coppia e di altri minori accolti. Il sistema relazionale che entra in gioco in queste comunità, fatto di reciproca condivisione della propria “privacy”, offre la possibilità di “osservare-respirare-comprendere” la relazione affettiva di coppia, la relazione genitori-figli biologici. La presenza dei figli della coppia potrà a seconda dei casi fare da supporto o da ostacolo al buon inserimento del minore accolto. La presenza della famiglie favorisce nel minore accolto un senso di “normalità”. Può favorire l’insorgenza di conflitti di lealtà nei confronti della propria famiglia di origine. Solo in alcuni casi uno o entrambi i membri della coppia residente hanno una competenza specifica in campo psico-socio-pedagogico. Nella maggior parte dei casi il profilo delle competenze tecniche è dunque modesto;
• comunità con famiglia residente + multiutenza, in cui oltre alla coppia, ai figli della coppia e ad altri minori accolti, sono presenti in casa altre tipologie quali anziani, ragazze madri, … È il modello promosso dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, che alcune Regioni hanno riconosciuto inserendolo nella propria normativa, il che offre un sistema di relazioni che punta a valorizzare la ricchezza inter-generazionale (ad esempio tra anziani-nonni e bambini-nipoti).
• comunità con operatori residenti, in cui non è presente una coppia (né, di conseguenza, i figli della coppia). È il caso delle comunità gestite da operatori singoli (professionali o volontari), o da comunità religiose. Per effetto della convivenza, la relazione adulto-minore accolto è molto intensa. V’è dunque mancanza della coppia, dei figli della coppia, dei “nonni”, … mentre è presente la relazione con altri minori accolti. Più frequentemente delle comunità con famiglia, questi operatori hanno una competenza in campo psico-socio-pedagogico. Tali specifiche possono fare preferire o escludere questa tipologia a seconda dei concreti bisogni di cui il minore è portatore.
Le comunità che non offrono una relazione di convivenza (basate interamente sulla presenza di personale specializzato turnante). In questo tipo di comunità i conflitti di lealtà dei minori verso i loro genitori sono meno probabili/intensi. Anche queste possono essere distinte in:
• comunità con operatori turnanti nelle 24 ore: è il caso delle numerose “comunità educative” che rappresentano la tipologia maggiormente diffusa. Il gruppo degli operatori turnanti oscilla, in genere, tra i 5 e gli 8 operatori, tutti o in parte in possesso di competenze in campo psico-socio-pedagogico. Il profilo professionale di tali comunità varia a seconda della tipologia di servizio svolto: educativo, terapeutico-riabilitativo, ... Ciascun operatore, in genere, svolge presso la comunità uno o più turni settimanali il che offre buoni spazi di relazione con i minori. Si tratta di rapporti che si connotano in maniera diversa da quelli di convivenza, più leggeri e meno “traboccanti-invadenti”, e per questo da preferire o escludere in base ai bisogni specifici del minore. In questi contesti la relazione con gli altri minori accolti emerge come l’unica relazione di convivenza e spesso si traduce in una “coesione-coalizione” più forte (anche se non sempre funzionale) rispetto al modello con operatore residente.
• comunità con operatori turnanti parzialmente presenti. È il caso delle strutture che ospitano i ragazzi più grandi, in regime di semi-autonomia (denominate “gruppi appartamento”, “comunità per la semi-autonomia”, …) in cui vi sono alcune fasce orarie. Qui l’età più elevata e la parziale assenza degli operatori caratterizza in modo ancora più leggero e flessibile il sistema relazionale.
Completano il quadro le comunità di pronta e transitoria accoglienza e le comunità per madri con figli, nelle quali la dimensione relazione con i minori è meno rilevante a motivo della breve durata o della presenza della madre dei minori.

4. ABBINAMENTO MINORE/COMUNITÀ
La scelta del tipo di comunità in cui inserire un minore deve essere orientata consapevolmente in base alle necessità del minore e alle caratteristiche della comunità. A tal fine individuiamo due gruppi di indicatori:
• Indicatori di abbinamento (indicatori specifici del singolo caso). Ogni collocamento in comunità richiede un vero e proprio "abbinamento", realizzato in base alle peculiarità in gioco: storia del minore, strutturazione e organizzazione della comunità, presenza o meno di altri accolti, relative storie e vissuti, presenza di figli della coppia responsabile e loro età e sesso (nel caso di comunità con famiglia residente), numero e tipologia di operatori specializzati presenti, … Ciascuno ha diritto ad un progetto per sé: attento, curato, pensato, flessibile, costruito con passione e con competenza in relazione autentica con la propria storia, le proprie relazioni, …
• Indicatori di pre-abbinamento (indicatori carattere generale). Prendono in considerazione gli standard affettivo-relazionali e organizzativi delle diverse tipologie di comunità. Sono elementi di “scenario” che non sostituiscono l’indispensabile lavoro sul singolo caso, bensì lo preparano, permettendo una sorta di pre-abbinamento, orientando la ricerca di comunità abbinabili/disponibili. Ad esempio, prendendo a riferimento la categorizzazione delle comunità proposta nel paragrafo precedente, si può ipotizzare (tendenzialmente e, lo ripetiamo, senza nessun automatismo, e solo come tappa preliminare a cui deve seguire un “abbinamento” caso per caso):
o che, salvo motivate eccezioni, i minori 0-6 anni vadano inseriti nelle comunità con famiglia residente (con o senza multi-utenza);
o che i minori vittime di abusi sessuali vadano inseriti in comunità con operatori altamente specializzati. I bambini vittime di maltrattamento e abuso sono stati gravemente danneggiati sul piano emotivo, affettivo, relazionale e sono portatori di importanti sintomi a livello comportamentale. Tali problematiche possono essere affrontate e curate in un contesto caratterizzato da forte istanza di contenimento, con un’alta resistenza agli urti, con una buona capacità di comprendere, leggere, tollerare comportamenti inusitati e modalità relazionali distorte e anche da una moderata e calibrata attenta attivazione sul piano affettivo (non ti invado, non ti faccio fare “indigestione”, la giusta distanza). In questi casi la comunità educativa viene considerata la risorsa elettiva. Solo dopo un adeguato percorso di ricostruzione del sé, sarà possibile valutare eventuali – e non automatici – trasferimenti in contesti “più familiari” (comunità con famiglia residente o affidamento familiare);
o che l’inserimento nelle comunità semi-autonome, quindi prive della presenza di figure va fatto solo a fronte di specifiche esigenze/profili dei minori;
o che, ove opportuno e specie con i ragazzi più grandi (bisognosi di accompagnamento verso l’autonomia), i progetti individualizzati prevedano l’affiancamento del minore residente in comunità da parte di una o più famiglie/adulti di supporto (adeguatamente preparati, formati, abbinati, monitorati, ...).
Sarebbe auspicabile l’attivazione di un tavolo di lavoro, aperto a tutti i soggetti competenti in materia, che attraverso un serio ed approfondito lavoro di confronto, sviluppi tali spunti di riflessione, giungendo a produrre alcuni indirizzi generali nazionali ed a definire un insieme di standard omogenei, ai quali andrebbero adeguati gli impianti normativi delle singole regioni. Questo anche allo scopo di fissare i requisiti minimi al di sotto dei quali una comunità anziché “di tipo familiare” rischia di trasformarsi in una mini-istituto mascherato.

5. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI
Il 28 giugno 2013 il Tavolo Nazionale Affido ha pubblicato un importante documento sul tema della continuità degli affetti di bambini e ragazzi accolti in affido . Nel documento si precisa: che la tutela degli affetti risponde ad un superiore interesse del minore da tutelarsi al fine di favorirne il benessere e lo sviluppo armonico; che la continuità degli affetti va innanzitutto intesa come tutela delle relazioni precedenti all’affidamento, sia nei confronti della famiglia di origine che verso le altre figure di riferimento; che vanno tutelati anche gli affetti sorti durante l’affidamento, in particolare tra il minore in affido e la famiglia affidataria e che a tal fine vanno evitate interruzioni traumatiche delle relaziono e/o passaggi ingiustificati in strutture, sia quando si dovesse disporre l’inserimento in un’altra famiglia (affidataria o adottiva), sia quando si decidesse per il rientro nella famiglia d’origine o in quella di parenti; che va salvaguardata anche la continuità dei rapporti affettivi e relazionali sviluppati dai minori durante il periodo di affidamento ad una Comunità, specie se gestite da una coppia genitoriale residente. In generale possiamo dunque affermare che, salvo specifici e motivati casi, la separazione obbligatoria, senza il diritto di frequentare chi si è cresciuto, sia una prassi negativa, sia per i soggetti coinvolti che per l’affidamento in generale (tant’è che, addirittura, la gente comune è portata ad immaginare l’affido temporaneo come una “relazione a termine”). Tali condivisibili indicazioni sulla “tutela della continuità degli affetti” vanno integrate con una riflessione relativa alla “cura della qualità degli affetti”. L’accoglienza di un bambino in affido on in comunità si sintonizza sempre con specifici vissuti ed esperienze relazionali ed emotive dell’adulto di riferimento, sia esso famiglia e/o operatore (residenti o turnante). Emergono vissuti, modelli operativi e giochi relazionali, complessi e non preventivabili, che necessitano di una “lettura nel qui ed ora dell’incontro”, sia inteso come spazio relazionale uno ad uno, che sistemico. Per questi motivi si sottolinea la necessità di attivare una supervisione psico-emotiva (oggi scarsamente praticata, sia per la mancanza di una adeguata “cultura della supervisione” che per l’assenza di specifici obblighi normativi).

6. COMUNITÀ E “DECONGESTIONAMENTO AFFETTIVO”
Nel citato documento sulla continuità degli affetti, il Tavolo Nazionale Affido ha manifestato perplessità nei confronti della prassi (in uso nel caso di trasferimento di un minore da una famiglia affidatari ad un’altra famiglia) di inserire provvisoriamente il minore in una comunità in nome di una presunta necessità di un suo “decongestionamento affettivo”, come preparazione al suo nuovo inserimento familiare. Sia perché, con le dovute attenzioni, può essere positivamente realizzato il passaggio diretto da una famiglia ad un’altra, sia perché appare fallace ritenere che le comunità residenziali siano dei contesti affettivamente neutri (occorrerà piuttosto ricorrere consapevolmente alle comunità, in quei casi circostanziati in cui il minore manifesti bisogni tali da richiederne gli specifici interventi) sia perché da un’esperienza di attaccamento il minore potrà affidarsi con sicurezza ad altri adulti e creare nuovi sani e sicuri legami. Accade che gli operatori possano vivere la chiusura di un affido come un'esperienza estremamente drammatica per loro stessi e per il minore, per cui tante volte può sembrare prematuro presentare immediatamente un'altra possibilità familiare. In realtà quando entrambe le famiglie sono ben preparate (una a chiudere nel migliore dei modi, l'altra ad accogliere un bambino sofferente e un po' sfiduciato) il passaggio può avvenire ugualmente con successo. Diverso è invece il caso del passaggio del minore dalla famiglia di origine gravemente compromessa all’affido in famiglia, specie se in situazioni di urgenza, di ostilità da parte della famiglia di origine, ... In tali casi l'inserimento in comunità educativa potrebbe essere necessario a causa del grave pregiudizio vissuto dal minore. Il passaggio diretto (da famiglia d'origine a famiglia affidataria) è infatti spesso insostenibile affettivamente per il minore (conflitti di lealtà, …) e anche il confronto tra riferimenti tanto diversi, può essere troppo destabilizzante. Il tempo della permanenza in comunità dovrebbe d’altro canto essere limitato. Appena possibile e salvo controindicazioni particolari, se non è il momento (o non è più possibile) di un rientro a casa, sarà bene procedere con un affido eterofamiliare. Spesso, nella prassi, si assiste invece ad un'eccessiva permanenza dei minori in comunità, considerato un contesto più sicuro, non a rischio di fallimento, con operatori specializzati. Si arriva spesso a pensare all'affido dopo un tempo lungo, quando il minore si affaccia alla preadolescenza, periodo indubbiamente molto delicato. Ciò detto, occorre però dire nuovamente che le comunità non sono un luogo “affettivamente neutro”. Se così fosse non bisognerebbe collocarvi dei minori. Non si può pensare (né chiedere) che un bambino non debba attaccarsi in una nuova situazione, solo perché provvisoria. Tale richiesta non è corretta dal punto di vista scientifico; dalla Teoria dell’attaccamento e dai recenti studi della neurobiologia e della psicologia sul tema dell'intersoggettività umana, si deduce che è inumano non stare nella relazione. Quello che si può invece proporre e chiedere è il passaggio alla trasformazione dei rapporti: i rapporti umani ed i legami si trasformano, non si cancellano; si può dare loro un significato diverso, nuovo, magari anche doloroso ma autentico e che abbia un senso. Questo è il compito tanto degli affidatari quanto degli operatori di comunità.

HANNO CONTRIBUITO AI CONTENUTI DEL LABORATORIO 2 del FORUM ONLINE
• Ceglia Annalisa, Borgarello (PV), psicologa progetto affido Per un fratello in più - Fondaz. L'Albero della Vita
• Del Giudice Giuseppe, Pavia, assistente sociale, coordinatore affido familiare Ufficio Piano di zona di Mortara (PV)
• Forcolin Carla, Venezia, affidataria, presidente associazione “La Gabbianella e gli altri animali”
• Gaglione Francesca, Napoli, assistente sociale del comune di Napoli
• Giordano Marianna, Napoli, assistente sociale, referente CISMAI Regione Campania, socio fondatore cooperativa L’Orsa Maggiore, membro équipe Istituto G. Toniolo di Napoli
• Marelli Liviana, Milano, assistente sociale, presidente cooperativa La grande casa, referente nazionale gruppo minori CNCA, referente del CNCA del Tavolo Nazionale Affido e nel Gruppo CRC
• Palombo Giulia, Salerno, psicologa e psicoterapeuta, coordinatore comunità familiari di Progetto Famiglia
• Ragonesse Rossana, Arezzo, consulente famil., sostegno alla genitorialità adottiva e affidataria, insegnante
• Rossi Carolina, Salerno, psicologa e psicoterapeuta, mediatore familiare, direttore area affido della federazione Progetto Famiglia
• Vanoni Alda, Milano, affidataria, già giudice minorile togato, referente dell’Ass. Famiglie per l’Accoglienza in seno al Tavolo Nazionale Affido, membro commissione nazionale “Diritto e relazioni familiari” del Forum delle Associazioni Familiari
Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online
 
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