(Doc. Sintesi) Lab.5: “Affido, durata ed esito incerto, ...”

Sintesi elaborate da Progetto Famiglia come "Documenti Base" preparatori del Convegno del 17 maggio 2013.

(Doc. Sintesi) Lab.5: “Affido, durata ed esito incerto, ...”

Messaggioda Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online » 23/05/2013, 3:26

“Affido, durata ed esito incerto degli allontanamenti, recuperabilità genitoriale”
Documento di Sintesi elaborato da Progetto Famiglia sulla base dei contributi giunti nel Forum entro il 16.05.2013


1. DISTINZIONE TRA AFFIDO E ADOZIONE
Nel documento “Dieci punti per rilanciare l’affidamento familiare in Italia”, pubblicato il 22 ottobre 2010 dal Tavolo Nazionale Affido, si legge: «9. CHIAREZZA E DURATA. Occorre tenere ben distinte le diverse finalità dell’affidamento familiare e dell’adozione dei minori, superando improprie commistioni e confusioni, regolamentando bene le adozioni in casi particolari, sviluppando con le istituzioni preposte (Regioni, enti locali, magistratura minorile, …) condivise modalità di intervento nei casi di affidamenti ad esito incerto, …» . Questa breve e densa affermazione, sottoscritta dalle principali associazioni e reti di famiglie affidatarie d’Italia, tenta di fare chiarezza in un panorama frastagliato ed in costante movimento in cui vari elementi sembrano assottigliare i confini tra adozione e affidamento familiare. Se ne citano, per brevità, solo alcuni: la Petizione al Parlamento Italiano “Diritto ai sentimenti peri i bambini in affido” presentata dall’Associazione “La Gabbianella e gli altri animali” il 13 maggio 2010 ; la sentenza emessa il 27 aprile 2010 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ; le proposte di legge presentate negli ultimi anni presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati . Questi ed altri elementi si collocano in un orizzonte magmatico, nel quale la condivisa attenzione alla tutela della continuità degli affetti dei minori in affido e il giusto sforzo di offrire risposte di accoglienza ai tanti e diversi casi di bambini e ragazzi a rischio di abbandono, finiscono talvolta con il fare da sponda a più o meno celati tentativi di aprire pericolosi varchi tra l’istituto dell’adozione e quello dell’affidamento familiare. Non a caso ad inizio 2013 l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con il convegno “Terra di confine tra affido e adozione: questioni aperte” ha inteso affrontare il tema, in particolare con una ricognizione sulla “adozione mite” e sulla sperimentazione che il Tribunale per i Minorenni di Bari ne ha fatto dal 2003 al 2008 .
Nel giugno 2012 il Tavolo Nazionale Affido è tornato sulla questione, affermando che qualora un minore in affidamento divenga adottabile andrebbe favorita la permanenza nella famiglia in cui egli già si trova (e quindi la sua adozione da parte della famiglia affidataria) solo e soltanto se «siano rispettate le seguenti condizioni: a) che il rapporto creatosi tra il minore e gli affidatari sia significativo, stabile, duraturo; b) che gli affidatari siano disponibili ad adottarlo (occorre sostenere il delicato discernimento che gli affidatari sono chiamati a fare, rifuggendo ogni pressione che ne condizioni la scelta); c) che gli affidatari siano in possesso dei requisiti per l’adozione». Con questi tre “paletti” il Tavolo ha intesto custodire con chiarezza la distinzione tra affido e adozione. Ipotesi che si ritiene estendibile anche al caso dell’adozione del minore da parte della famiglia residente in comunità e che si considera valide anche in caso di pregressa conoscenza della famiglia di origine dell’affidato da parte degli affidatari (a meno che non si tema che possano esservi serie interferenze della famiglia di origine nella vita del bambino).
Ciò chiarito, sarà sempre doveroso richiamare il diverso compito che la legge assegna ai due istituti giuridici. La caratteristica dell’affido, che lo distingue dall’adozione, è il rispetto e il tendenziale recupero del rapporto tra il minore e la sua famiglia d’origine. La legge del 1983 formulava questo concetto dicendo che “l’affidatario deve agevolare i rapporti tra il minore e i suoi genitori e favorirne il reinserimento nella famiglia di origine” (art. 5 comma 3 legge 184/1983). La riforma del 2001 (legge 149 del 28.3.2001) ha perso questa chiara indicazione, ma richiede che il provvedimento giudiziario indichi “le modalità attraverso le quali i genitori e gli atri componenti del nucleo familiare possono mantenere i rapporti con il minore”, individua il “recupero della famiglia d’origine” come parametro per determinare la durata dell’affidamento (art. 4), e prescrive al servizio sociale (art. 5) di agevolare “i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore.” Il mantenimento, ed anzi il miglioramento, del rapporto con la famiglia d’origine è dunque un pilastro dell’istituto dell’affidamento familiare. Occorrerà lavorare molto per una corretta sensibilizzazione delle famiglie all’accoglienza affidataria e una particolare attenzione va rivolta alla formazione perché coppie e persone singole possano fare un sincero percorso di discernimento.

2. AFFIDAMENTI LUNGHI, AFFIDAMENTI SINE DIE
In base agli ultimi dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali la durata degli affidamenti familiari supera i due anni nel 48% dei casi (e di questi, più della metà, dura oltre i 4 anni). Sulla questione il Tavolo Nazionale Affido è intervenuto nel 2010 chiedendo che fossero definite le «condizioni per il contenimento della durata degli affidi e per un corretto e consapevole ricorso agli affidamenti di lungo periodo» . È forte la preoccupazione per il numero elevato di affidamenti a lungo termine, talvolta dovuti alla ridotta efficacia degli interventi di prevenzione del disagio, alla mancanza di una progettazione accurata dell’intervento e di una insufficiente messa a disposizione, da parte delle istituzioni, delle risorse, non solo assistenziali, necessarie affinché la famiglia sia messa in grado di superare le difficoltà che hanno determinato l’allontanamento del minore. Nel 2012 il Tavolo Nazionale Affido si è espresso nuovamente sulla questione, ribadendo: «a) che l’obiettivo prioritario dell’affido è garantire il benessere del minore dandogli la possibilità di crescere in una famiglia; b) che l’esito dell’affido dovrebbe essere il rientro del bambino nella sua famiglia di origine; c) che, tuttavia, un affidamento non può essere giudicato riuscito o meno solo in base alla sua durata e all’effettivo rientro del bambino nella sua famiglia di origine». Condizione indispensabile per una buona riuscita di un affidamento - indipendentemente dalla sua durata - è il costante sostegno e aiuto che i servizi devono offrire al bambino, alla sua famiglia di origine e alla famiglia affidataria e la presenza di un progetto conosciuto e condiviso tra tutti i vari soggetti (ivi compresa, nella misura del possibile, la famiglia di origine), costantemente monitorato e ricalibrato in funzione dell’evolversi della situazione. Un buon affidamento è tale quando le due famiglie, anche con il determinante sostegno degli operatori, riescono a creare e mantenere un buon rapporto tra di loro, e il bambino viene aiutato a mantenere e rafforzare il legame con la sua famiglia.
Il Tavolo Nazionale Affido, nel citato documento del 2012, ha inoltre sottolineato che: «l’attuale normativa non pregiudica la possibilità di affidi a lungo termine: sono molti i casi in cui i genitori al di là dei sostegni non sono in grado di provvedere da soli alla crescita del minore, pur non ricorrendo gli estremi per la dichiarazione di adottabilità. È tuttavia da stigmatizzare il fatto che in molti casi l’affidamento si prolunga per (…) la mancata messa a disposizione delle famiglie in difficoltà di aiuti non solo economici e assistenziali, ma anche di quelli che afferiscono alla casa, al lavoro, all’affiancamento amicale. In tal senso il realizzarsi di affidamenti di lunga durata, anche se adeguati e necessari in taluni specifici casi, non può essere considerato la normalità e deve essere sempre sostenuto da specifici progetti monitorati con regolarità» . Del resto, se vi fosse il sospetto di una possibile privazione di assistenza materiale e morale da parte dei genitori e dei parenti, a tutela dell’interesse del minore stesso sarebbe necessario non già l’avvio di un affidamento ma la segnalazione alla Procura presso i Tribunali per i minorenni per l’avvio della procedura per la dichiarazione della sua adottabilità. Il Tavolo sul tema della durata degli affidi si inserisce dunque nell’ampio solco scientifico e dottrinale che, rifiutando il concetto di temporaneità assoluta dell’affido, prende in considerazione le cd. situazioni di “semi-abbandono permanente”, proponendo la strada della “doppia appartenenza”. Di questa prospettiva si parla da decenni. Risale al 1983 un significativo intervento di Paolo Vercellone, allora presidente del Tribunale per i Minorenni di Torino, il quale affermava: «Dovunque, lo strumento dell’affido familiare è stato ritenuto prezioso in queste situazioni in cui bambini e adolescenti possono crescere bene nella famiglia affidataria, mantenendo contatti significativi con i propri genitori naturali, sprovveduti sì, ma non inesistenti» . Di medesimo segno anche quanto nel 2002 affermava Francesca Ichino Pellizzi parlando di: «genitori incapaci di organizzarsi e di organizzare una famiglia, ma non a tal punto da giustificare il provvedimento estremo dell’adozione» . Sintoniche anche le dichiarazioni del CNCA che ha inteso l’affido a lungo termine come una «forma di affido con identità specifica. Non un affido “sbagliato”, mal riuscito» . Il documento del Tavolo sembra invece escludere i cd. “sine die”, cioè quegli affidamenti senza scadenza, che gli articoli 330 e 333 del Codice Civile permettono, e che hanno invece trovato positiva accettazione (seppur entro certi limiti e condizioni) in un documento pubblicato dal CNSA – Coordinamento Nazionale dei Servizi Affidi nel 2002 il quale li ha dichiarati “utili” (in particolar modo per gli adolescenti), “realistici” (a fronte di situazioni in cui la famiglia non sarà mai in grado di assumere in toto le responsabilità genitoriali) e “inevitabili” (a fronte dei vari casi di impossibilità a procedere con l’adozione) . Di segno completamente opposto invece il Manifesto sull’affido diffuso dall’Ai.Bi. a fine 2012, nel quale si propone di «limitare per legge la durata degli affidi a massimo 2 anni, rinnovabili una sola volta e solo per gravi motivi (totale massimo 4 anni)» .

3. DIFENSORE D’UFFICIO E DURATA DEGLI AFFIDAMENTI A RISCHIO GIURIDICO
Un nodo importante, difficile da risolvere, che spesso causa gravi deprivazioni affettive dei bambini, è quello della durata abnorme che caratterizza molte procedure di dichiarazione di adottabilità. Pur riconoscendo il bisogno di attivare tutte le garanzie necessarie per le varie parti in gioco, ivi compresa la presenza dei difensori fin dalle prime battute ed in tutte le fasi dei procedimenti giudiziali, non è accettabile che questo “costringa” i minori a trascorrere gran parte della loro età evolutiva in collocamenti a rischio giuridico, con grande danno per la loro crescita. La lunghezza degli affidamenti a rischio giuridico pone in evidenza lo scollamento tra i tempi-procedura della giustizia e i tempi-vissuto dei bambini. Occorre riflettere sul come colmare questa distanza e sul se sia possibile custodire il sistema delle garanzie contingentando i tempi entro i quali i vari passaggi procedurali devono essere espletati.

4. PROGNOSI DI RECUPERABILITÀ DELLE COMPETENZE GENITORIALI E AFFIDAMENTI AD ESITO INCERTO
Al centro del dibattito sulla durata e sugli esiti degli affidamenti familiari v’è la questione relativa alla valutazione prognostica di recuperabilità delle competenze genitoriali. Ancora insufficientemente praticata, essa è l’elemento discriminante tra un “buono” e un “cattivo” affido. Per usare una metafora, essa è la bussola che orienta l’operatore nel decidere “che tipo di affido progettare”, “a quale famiglia” e “per quanto tempo”. Parafrasando le linee guida della Regione Veneto in materia di affidamento familiare, possiamo affermare che molta delle confusione che si ingenera nei percorsi di protezione e accoglienza dei minori è il frutto di «fallimenti prognostici di recuperabilità delle famiglie di origine» . Questo rimanda non solo alla necessità di un più vigoroso sforzo progettuale ma anche al bisogno di contemplare e potenziare la capacità dei servizi di effettuare adeguate valutazioni (indagando sulla natura della crisi familiare e sulla sua evoluzione, le conseguenze dei comportamenti disfunzionali degli adulti sulla vita emotiva e relazionale dei bambini, e la potenziale attitudine dei genitori al cambiamento, …) tenendo presente che l’attuale assetto formativo e organizzativo determina una diffusa difficoltà ad espletare compiutamente tale tipo di lavoro. A questo andrebbe inoltre affiancato (o meglio ancora, fatto precedere) un ampio sforzo culturale degli operatori, e addirittura scientifico e teorico, che punti ad interrogarsi sulle rappresentazioni che si hanno del ben-essere e del mal-essere dei bambini e delle famiglie, al fine di costruire codici concettuali espliciti (definendo una base minima condivisa di criteri, strumenti, …) e, come tali, comunicabili e condivisibili tra diversi operatori e professioni. Senza queste chiarificazioni di fondo sarà pregiudicata la possibilità di effettuare un buon lavoro di conoscenza e valutazione delle situazioni e di progettazione degli interventi, con il forte rischio di lavorare in direzioni diverse e/o di orientare l’operato sulla base dei pregiudizi o delle esperienze personali degli operatori.
In un documento diffuso da Progetto Famiglia nel maggio 2010 si sottolinea che, in presenza di un adeguato sistema di valutazione di recuperabilità genitoriale, sarebbe possibile fare chiarezza nel panorama degli affidamenti familiari, distinguendo tra:
• gli “affidamenti chiaramente integrativi”, cioè gli affidamenti canonici, quelli intrinsecamente connessi al sostegno alla famiglia di origine - che si auspica rappresentino sempre la maggioranza dei casi – con finalità preminentemente educativa, miranti ad integrare, senza eliminare, il ruolo della famiglia d’origine, per periodi più o meno lunghi. Questi percorsi, che nascono come affidi e tali rimangono, vanno proposti alle “famiglie dei servizi sociali e delle associazioni”, cioè a quelle che sulla base di un percorso formativo e di conoscenza sono ritenute idonee all’affido;
• gli “affidamenti a rischio giuridico – finalizzati alla sostituzione delle figure genitoriali”, cioè quelli connessi all’apertura della procedura di adottabilità. Al di là della omonimia, si tratta di interventi del tutto estranei al discorso sull’affido familiare in senso stretto. Consistono in un provvedimento di collocamento provvisorio del minore in attesa della definitività del provvedimento di adottabilità. Nell’esercizio della sua prudente discrezionalità, il giudice può ritenere opportuno evitare al bambino troppi passaggi, ed individuare tra le famiglie che hanno dato la disponibilità all’adozione (e che hanno i requisiti previsti dalla legge) la possibilità di un buon collocamento, con la previsione, comunicata alla famiglia collocataria, di trasformare il collocamento in affidamento preadottivo ove la adottabilità divenisse definitiva – e, ovvio, l’inserimento del bambino risultasse positivo. È chiaro che in siffatta situazione non c’è, per definizione, alcun rapporto con la famiglia d’origine che si mira a sostituire. Sono dunque collocamenti che hanno una funzione di protezione del minore e che fungono da anticamera dell’adozione.
• gli “affidamenti ad esito incerto”, che ricorrono in quei casi – si spera sempre eccezionali e poco numerosi - in cui si parte con un impegno significativo di supporto a funzioni genitoriali gravemente compromesse ma che non si è certi di poter recuperare. Possono evolvere tanto in un rientro in casa, quanto in un prolungamento dell’affidamento, quanto nell’apertura della procedura di adottabilità. Sono percorsi “in divenire” che nascono con l’obiettivo di sostenere il ruolo della famiglia biologica ma che, laddove ciò non risulti fattibile, sono aperti anche ad evoluzioni adottive.
Tornando al discorso relativo alla valutazione delle capacità genitoriali occorre evidenziare quanto l’attuale tendenza veda i servizi socio-sanitari impegnarsi in tali valutazioni solo allorquando - dopo alcuni mesi dalla segnalazione - viene aperto un procedimento giudiziario sulla potestà genitoriale e, quindi, solo su autorizzazione del giudice minorile (affinché possano operare anche in assenza della volontà dei genitori). Tutto questo fa sì che, per quella parte di allontanamenti per i quali non si possono attendere i tempi lunghi dell’avvio del procedimento giudiziario, l’accoglienza venga avviata senza il conforto di una vera e propria valutazione e quindi in mancanza di un adeguato progetto, con grave rischio di errori e di “cambi di scena” in corso d’opera. Occorre sondare possibili alternative. Ad esempio si potrebbe pensare alla definizione di specifici protocolli di intesa tra organi giudiziari e servizi sociosanitari, grazie ai quali il giudice possa autorizzare le valutazioni in tempi più brevi. Si tratterebbe di una sorta di “percorso ad avvio rapido della valutazione delle competenze genitoriali”, cui ricorrere al momento della progettazione di quegli affidi che già alla nascita mostrassero un “esito incerto”.

5. FALLACIA DELL’ADOZIONE MITE
L’ANFAA (Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie), insieme ad altre numerose voci, sia istituzionali, che accademiche, che dell’associazionismo , da anni stigmatizza la prassi presente in alcuni Tribunali per i Minorenni, a procedere all’adozione nei casi particolari ex art.44 lettera d) nei confronti di minori che, pur essendo in stato di adottabilità, non vengono dichiarati adottabili dai giudici. Come è noto, l’articolo 44, lettera d) della legge n. 184/1983 e s.m., prevede l’adozione in casi particolari esclusivamente nei confronti di quei minori per cui « vi sia la constata impossibilità di affidamento preadottivo», ossia per quei limitati casi in cui per un minore dichiarato adottabile, non sia possibile l’inserimento in una famiglia adottiva avente i requisiti previsti per l’adozione legittimante. D’altro canto, se i minori non si trovassero in stato di adottabilità, non sarebbe accettabile la pronuncia di adozioni ex art. 44 lettera d, (spesso impropriamente denominate “adozioni miti”) cui si spesso di ricorre nei casi di affidamenti a lungo termine: non pare accettabile anche nei confronti del nucleo familiare di origine, che non va espropriato del suo ruolo genitoriale e parentale, anche se per svolgerlo avesse bisogno di contare stabilmente sull’aiuto di un’altra famiglia e sul sostegno degli operatori dei servizi socio-assistenziali e sanitari. La tutela del minore, del suo nucleo familiare di origine e degli affidatari è un compito delle istituzioni di fondamentale importanza, com’è d’altra parte stabilito dalle vigenti leggi che, pur considerando l’affidamento familiare un intervento assistenziale tendenzialmente temporaneo, non escludono la possibilità di affidamenti a lungo termine. A questo riguardo va ricordato che, in base alla legge n. 184/1983 solo l’affidamento consensuale non può durare più di due anni, ma l’affido è prorogabile dal Tribunale per i minorenni «qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore». In questi casi, ricorrere alla pronuncia dell’adozione nei casi particolari o “mite” dopo qualche anno di affidamento, rischia di tradursi in un sostanziale disimpegno delle istituzioni che potrebbero ritenersi non più tenute ad aiutare il nucleo familiare di origine in difficoltà né a sostenere le famiglie affidatarie (divenute adottive) che verrebbero così lasciate sole nel gestire il loro rapporto con il minore e la sua famiglia di origine. Inoltre, se passasse il concetto che gli affidamenti a lungo termine (che sono la stragrande maggioranza degli affidamenti in corso) si potrebbero trasformare in “adozioni miti”, i genitori in difficoltà, non sarebbero disponibili all’affidamento, temendo, a ragion veduta, di perdere i propri figli. D’altra parte le esperienze finora realizzate confermano che un minore può vivere per anni in una famiglia affidataria, conservando i rapporti con la propria, senza che ci sia la necessità di trasformare questi affidamenti in adozioni.

6. AFFIDAMENTO “APERTO”?
Diverso è invece il caso di quegli affidamenti che, pur nascendo come tali, potremmo trasformarsi in adozione legittimante per il sopraggiunto più chiaro manifestarsi di una situazione di abbandono morale e materiale, inizialmente non compiutamente diagnosticabile. In tali percorsi di affido, che sono quelli già definiti nel paragrafo 4 come “affidamenti ad esito incerto”, a quali famiglie sarà opportuno proporre l’accoglienza? Il Tavolo Nazionale Affido nel citato documento sulla continuità degli affetti considera «altamente raccomandabile, nei casi in cui l’affidamento del minore si prospetti … ad esito incerto, una particolare cautela nella scelta della famiglia affidataria (ad esempio orientandosi verso famiglie con figli e con pregresse esperienze di affido) in virtù del maggiore bisogno di esperienza e chiarezza di motivazioni che queste situazioni richiedono in vista del preminente interesse del minore».
Approfondendo l’analisi vengono all’attenzione due possibili criteri da utilizzare nella scelta:
- la verifica dei requisiti: è opportuno che queste famiglie siano in possesso dei requisiti per l’adozione. Diversamente si aprirebbe un pericoloso varco tra affido e adozione.
- la verifica della motivazione: a differenza dell’affidamento a rischio giuridico (e a differenza di quanto propone il “modello” dell’adozione mite, che “pesca” impropriamente le famiglie dalle liste d’attesa per l’adozione) in questo caso occorrerebbe verificare la presenza di una motivazione preminentemente affidataria. Dovrebbe cioè trattarsi di famiglie che non nascono come “aspiranti adottive” perché non è questa la prima e principale richiesta che viene loro rivolta. Riteniamo, a tale proposito, che non basterebbe la sola partecipazione ad un corso di formazione o il semplice essere iscritti nell’elenco comunale delle famiglie affidatarie; questi sono aspetti importanti ma che da soli non costituirebbero sufficienti livelli di garanzia. Sarebbe invece necessario un percorso di approfondita conoscenza della famiglia da parte degli operatori pubblici, fatto di colloqui che di “osservazione in opera”. Assai utile sarebbe inoltre il ricorso ad alcuni indicatori “oggettivi” quali la presenza di figli propri, l’aver vissuto positivamente una o più esperienze di affidamenti “integrativi”, la partecipazione prolungata a percorsi di gruppo e di condivisione con altri affidatari. Si tratta insomma di famiglie che inizialmente sono inserite negli elenchi degli affidatari tenuti dai servizi sociali e che solo successivamente “finiscono” anche in quelli per l’adozione curati dai tribunali.
Proseguendo su questa linea si potrebbe addirittura arrivare a distinguere due sezioni all’interno delle banche dati degli affidatari, una tenuta dai servizi sociali, l’altra co-gestita da servizi e tribunali:
- la sezione degli “affidatari ordinari”, deputata agli affidi integrativi e di breve durata, aperta anche ai single ed alle famiglie idonee all’affidamento ma non all’adozione;
- la sezione degli “affidatari aperti” (o “affidatari forti” [in contrapposizione al concetto di “adottanti miti”] o come altro li si vuole chiamare), deputata agli affidi ad esito incerto, aperta alle sole famiglie idonee e disponibili all’adozione e con motivazione all’affido “controllata e garantita”.
Pur ritenendo importante affrontare questi nodi (che sono nodi concettuali, prima ancora che di prassi giurisdizionale e sociale) occorre al contempo considerare che tali zone di confine tra affido e adozione pongono in risalto il discorso della “sostenibilità tecnica” degli interventi. Non è escluso infatti che, a causa delle difficoltà in cui versa il sistema dei servizi sociali, un modello astrattamente valido possa produrre, in fase di attuazione, sconquassi peggiori di quelli a cui tenta di porre rimedio.

HANNO CONTRIBUITO AI CONTENUTI DEL LABORATORIO 5 del FORUM ONLINE
• Angiuni Filomena (Roma, Avvocato matrimonialista e minorile, vice-procuratore onorario Procura Roma)
• Bianchini Rossella (Milano, Assistente sociale CAF Onlus)
• Brunella Battilomo (Roma, psicologo ASL, Consultorio Familiare di Palestrina e Polo Affido Valmontone)
• Forzoni Paola (Arezzo, affidataria, socia dell'Associazione Codice ADAF)
• Giordano Marianna (Napoli, assistente sociale, referente CISMAI Regione Campania, socio fondatore cooperativa L’Orsa Maggiore, membro équipe Istituto G. Toniolo di Napoli)
• Iavarone Giovanna (Treviso, Affidataria, Docente scuola prim., Presidente Ass. La Gerla di Nervesa d. B.)
• Nova Donata (Monza, affidataria, presidente nazionale ANFAA, referente del Tavolo Nazionale Affido)
• Petruziello Gennaro (Benevento, Psicologo, psicoterapeuta, già giudice onorario tribunale minorenni di Napoli, presidente ass. In.F.I.e.R.i.)
• Piccoli Luigi (Casarsa della Delizia – PN, affidatario, presidente Ass. Il Noce, presidente coordinamento regionale COREMI FVG, referente COREMI nel Tavolo Nazionale Affido)
• Pignatiello Loruena (Benevento, psicologa, équipe Ass. Progetto Famiglia Affido Benevento)
• Piras Stefania (Napoli, Assistente sociale, mediatrice familiare della Coop. L'Uomo e il Legno)
• Riccardi Cristina (Milano, affidataria, resp. area affido Associazione Ai.Bi. e referente nel Tavolo Nazionale Affido, Coordinatore Commissione “Diritto e relazioni familiari” Forum delle Associazioni Familiari)
• Vanoni Alda (Milano, affidataria, già giudice minorile togato, referente Famiglie per l’Accoglienza nel Tavolo Nazionale Affido e nella Commissione “Diritto e relazioni familiari” del Forum Ass. Familiari)
• Zanetti Valeria (Napoli, servizio affidi del Comune di Napoli)
• ……………, (Como, Psicologo psicoterapeuta infantile, Responsabile Servizio Affidi di Lomazzo)
• ………… Pasqualina (Salerno, Responsabile Servizio Assistenza Sociale Comune di Polla)
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