Proseguendo nella riflessione, dobbiamo rilevare che anche in quei contesti dove i servizi affidi e le associazioni familiari riescono a raggiungere adeguati livelli di affidabilità, il numero delle famiglie che si aprono all’affidamento familiare resta assai insufficiente se paragonato al bisogno di accoglienza e vicinanza che emerge dai tanti minori e dalle tante famiglie in difficoltà. Probabilmente quello che occorre è un cambio di paradigma, nel senso che, verosimilmente, è insufficiente proprio l’idea di reperire famiglie già disponibili all’affido. È fuorviante il pensiero di poter trovare numerose famiglie già pronte (salvo il doverle perfezionare con qualche colloquio o qualche incontro di formazione) nelle motivazioni all’accoglienza familiare.
L’esperienza dimostra che di famiglie così ve ne sono sempre meno. Per comprendere cos’è che non va, quale nuova lente va adottata, è utile allargare brevemente lo sguardo all’intero panorama del volontariato (non solo familiare) ed alla crisi profonda che lo attraversa da oltre un decennio.
Tra i campanelli di allarme, evidenziati già nel Rapporto sul volontariato del 2005, emerge con evidenza un processo di progressiva frammentazione ed indebolimento di questo mondo. I fenomeni più rilevanti sono la polverizzazione delle associazioni (sempre più piccole, sempre più scollegate) e l’attenuarsi del principio di gratuità (ricorso sempre più frequente a rimborsi spese forfettari, aumento del personale remunerato, tendenza alla professionalizzazione dei volontari, …) (1). Riteniamo che vi sia uno stretto nesso causale tra la rarefazione delle relazioni - nelle associazioni e tra le associazioni – e la diminuzione del senso del gratuito, della disponibilità al dono. L’esito è un aumento dell’attenzione alla risposta ai bisogni propri (economico-occupazionali e di autonomia) più che a quelli degli altri. Sinteticamente, quanto sopra esposto, è racchiudibile nell’equazione “+ solitudine” = “- gratuità” o, meglio ancora, “- relazionalità” = “- disponibilità volontaria”. È proprio da questa coscienza, relativa all’effetto depotenziante che lo sbriciolamento della società esercita sulla capacità solidale delle persone, che bisogna partire per mettere a fuoco la strada per un rilancio della cultura e della prassi del volontariato e dell’accoglienza familiare. L’esperienza e le riflessioni su questo tema, condivise negli ultimi anni specialmente in seno al confronto tra reti familiari (2), ci portano ad affermare che la pista da seguire si fonda su un approccio comunitario. Il postulato è che: “l’apertura delle famiglie all’accoglienza (e in generale alla solidarietà) è il risultato di una pregressa e significativa relazione comunitaria”.
In quest’ottica, prima ancora di cercare famiglie disposte a fare le affidatarie, occorre promuovere famiglie disposte ad essere comunitarie.
Accanto all'opera di reperimento delle sempre meno numerose ed improbabili famiglie “già pronte” al volontariato ed all’accoglienza occorre, in una prospettiva di capacitazione della comunità (3), proporre ad un ampio numero di famiglie di dedicare tempo ed energie allo stare insieme comunitario e solidale. Applicando queste considerazioni al quesito da cui siamo partiti (cioè come reperire più famiglie disponibili all’affido, applicazione specifica della più ampia questione del rilancio del volontariato e della solidarietà familiare) quali indicazioni possiamo trarne?
Ebbene, dire approccio comunitario e famiglia comunitaria non significa semplicemente insistere sulla dimensione della RESPONSABILITÀ, sollecitando le famiglie a reinvestire tempo ed energie nell’impegno solidale coordinandosi maggiormente, programmando azioni comuni, sviluppando strategie condivise. Non significa neanche soltanto assicurare adeguati spazi di RIFLESSIVITÀ, mediante incontri periodici per approfondire le ragioni e le finalità dell’impegno, per riflettere insieme sulle esperienze, per raccontarsi i vissuti in corso, con le modalità dell’auto-formazione, dei gruppi di confronto e condivisione, dei gruppi di mutuo aiuto condotto da un esperto, etc. In un siffatto scenario, tutto resterebbe ancorato all'insostenibile primato (logico e cronologico) della pregressa disponibilità delle famiglie al volontariato. Certo, per fare meglio il volontariato, bisogna farlo e pensarlo insieme. Si tratta di uno slogan condivisibile nel suo senso etico-sociale ma che non risponde al problema della progressiva riduzione delle famiglie capaci/disponibili a tale impegno. Sarebbe come dire ad una persona debilitata: «fatti forza!». Bisogna capire fino in fondo che la dimensione comunitaria è realmente operativa, è pienamente vissuta, se passa anche (e innanzitutto) attraverso la CONDIVISIONE dei propri bisogni personali e familiari. Non si devono cercare fantomatiche famiglie che, dopo aver risolto tutti i propri problemi hanno ancora voglia ed energia di dedicarsi agli altri; bensì famiglie disponibili a costruire con gli altri la soluzione ai bisogni comuni, a partire da quelli pratici e più immediatamente condivisibili, connessi all’organizzazione del menage quotidiano (accompagnamento dei figli a scuola e alle altre attività, fronteggiamento di piccoli imprevisti e difficoltà, …). Così come un tempo le famiglie che abitavano lo stesso caseggiato condividevano naturalmente la cura dei figli ed in questo si contagiavano con i modelli relazionali ed educativi altrui, oggi vivere la dimensione di famiglie comunitarie significa entrare nell’esperienza quotidiana dell’altro, essere disposti a contaminarsi reciprocamente. Non rievocando anacronistici ritorni alla solidarietà meccanica del passato (segnata da dinamiche di controllo e pressione sociale oggi improponibili) bensì promuovendo lo sviluppo di una solidarietà riflessiva, consapevolmente e liberamente scelta. Se prima, tutto ciò, avveniva spontaneamente, come espressione di un’appartenenza e di un radicamento territoriale, sociale e culturale, oggi si tratta di ri-radicarsi nella micro-realtà sociale nella quale viviamo per costruire quella dimensione di reciprocità, che nella risposta condivisa ai bisogni comuni accorcia le distanze tra famiglie. Possiamo affermare che la capacità di essere famiglia accogliente/solidale/comunitaria dipende in buona sostanza dal modo (individuale o comunitario) con cui si dà risposta alle proprie esigenze quotidiane. Per dirla con Giancarlo Cursi: «il fondamento di una famiglia “risorsa” è nello stile di risposta al proprio “bisogno”».
(1) Frisanco R. (2006), Un fenomeno con tanti “più” e qualche “campanello d’allarme”, in Rapporto biennale sul volontariato in Italia, Osservatorio Nazionale per il Volontariato, Roma.
(2) Assai significativi, in tal senso, i Campi Scuola della rete sociale “Bambini, Ragazzi e Famiglie al Sud” (http://www.bambinieragazzialsud.it) che da oltre 15 anni coinvolgono centinaia di famiglie e minori, di diverse associazioni familiari.
(3) Twelvetrees A. (2002), Community works, Palgrave (traduzione in Italiano: 2006, Il lavoro sociale di comunità. Come costruire progetti partecipati, Erickson, Trento).
SPUNTI PER IL CONFRONTO
Quanto la “dimensione comunitaria” incide sull’efficacia della promozione dell’accoglienza familiare?
Quali sono gli “ingredienti” da mettere in campo per promuovere l’empowerment delle reti comunitarie tra famiglie? Quali le “buone pratiche” e le “esperienze” da prendere a riferimento?