Nel lontano 1951 il filosofo francese Jacques Maritain scriveva: «è significativo che gli uomini non comunichino veramente tra loro, se non passando per l’essere (...) Se restano nel mondo del loro io non si comprenderanno. Si osservano senza vedersi, ognuno infinitamente solo» (1). In sintonia con queste considerazioni, alcuni importanti filoni di riflessione e di sperimentazione metodologica, affermano che il buon funzionamento di équipe, gruppi o reti di lavoro dipende non solo dalla chiara definizione di ruoli e mandati ma anche (o, addirittura, “innanzitutto”) dalla qualità delle relazioni personali che intercorrono tra i membri. Una rete formale può funzionare solo se, oltre che retta da regole formali chiare e ben definite, è anche corroborata da forti rapporti informali tra gli operatori che la compongono. Citiamo al riguardo:
o la pianificazione strategica di origine statunitense (strategic management), centrata sulla “mission comune”, che tramite la realizzazione di percorsi di confronto e formazione punta, con operatori di diverse appartenenze e ruoli, a metterli fianco a fianco, ad approfondire non solo il “come” ma anche e soprattutto il “perché” del proprio agire;
o gli studi di Friend e Jessop (scuola di IOR: Institute for Operational Research) che rilevano il ruolo decisivo che assumono gli informal network nelle decisioni organizzative e hanno aperto una nuova prospettiva negli studi delle decisioni pubbliche che tradizionalmente enfatizzano, invece, il ruolo delle procedure formali e delle norme.
L’antidoto necessario alla frammentazione degli interventi e degli operatori è dunque la scommessa sulla costruzione di rapporti interpersonali di qualità. La chiave di volta dell’intero discorso è dunque relazionale (2). Andando più a fondo possiamo addirittura dire che tali percorso sono innanzitutto “emotivi ed affettivi”. Si collabora bene se ci si “vuole bene” e se ci si “sente voluti bene”.
Si tratta di un percorso in salita perché le organizzazioni, specie quelle burocratiche, non sono abituate a parlare di sentimenti. Sono attestate sul fare più che sull’essere. È un percorso che chiede in ogni operatore una forte motivazione al servizio, l’apertura alla corresponsabilità e alla condivisione del lavoro, lo sviluppo della coesione di gruppo, la definizione delle competenze e delle azioni di ciascun attore. Occorre altresì imparare a fare comunità, «rimettendosi costantemente in gioco» (3), coniugare la competenza professionale con una necessaria umiltà relazionale (4).
Oggi più che mai gli operatori (pubblici, del privato sociale, del volontariato) e le organizzazioni (istituzioni, servizi e agenzie, cooperative e associazioni, …) non sono pensabili come “chiusi su di sé e autosufficienti”. Occorre comprendere quanto sia vitale e necessario l’essere aperti. Occorre altresì capire che l’esser aperti non è passiva disponibilità, ma attivo impegno nel “prendersi cura dell’altro”, in un’azione di reciproco riconoscimento e condivisione (5).
(1) Maritain J. (1951) Art and Faith, Philosophical Library.
(2) Donati P., Di Nicola P. (2006), Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale all’indagine sociologica, Carocci, Roma.
(3) Pazè P. (2008), Fare Comunità, Introduzione a Zappa M., Ri-fare comunità. Aprirsi a responsabilità condivise per chiudere davvero gli istituti, FrancoAngeli, Milano.
(4) Palumbo M. (2001), Il processo di valutazione, FrancoAngeli, Milano.
(5) De Beni M. (2010), Educare. La sfida e il coraggio, Città Nuova Editrice, Roma
SPUNTI PER IL CONFRONTO
Quanto, nella propria esperienza di professionale, il lavoro di équipe/gruppo/rete è influenzato dalla qualità degli assetti formali (definizione di ruoli, funzioni, …)?
E quanto è influenzato dalla qualità delle relazioni informali presenti tra gli operatori?