7. DIMENSIONE “RELAZIONALE” DEL LAVORO DI RETE

La crisi relazionale post-moderna e la dimensione comunitaria del lavoro sociale e del volontariato; la promozione della solidarietà familiare, il radicamento territoriale e la condivisione dei bisogni; il lavoro di rete formale e informale: visione olistica e approccio ecologico; i tessitori naturali delle reti; la supervisione “esperta” delle reti.

ESPERTI COINVOLTI: Alfonso Pepe, Associazione Progetto Famiglia Avellino; Luigi e Anna Piccoli, Ass. Il Noce di Casarsa della Delizia (PN); Elisabetta Giuliani, Servizio Affidi della Provincia di Roma; Giorgio Marcello, Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cosenza; Giancarlo Cursi, Pontificio Ateneo Salesiano di Roma; Nicoletta Goso, Movimento Famiglie affidatarie e solidali, Roma; Antonella Pontillo, Associazione Progetto Famiglia Benevento; ...

.

7. DIMENSIONE “RELAZIONALE” DEL LAVORO DI RETE

Messaggioda Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online » 08/03/2013, 21:45

Nel lontano 1951 il filosofo francese Jacques Maritain scriveva: «è significativo che gli uomini non comunichino veramente tra loro, se non passando per l’essere (...) Se restano nel mondo del loro io non si comprenderanno. Si osservano senza vedersi, ognuno infinitamente solo» (1). In sintonia con queste considerazioni, alcuni importanti filoni di riflessione e di sperimentazione metodologica, affermano che il buon funzionamento di équipe, gruppi o reti di lavoro dipende non solo dalla chiara definizione di ruoli e mandati ma anche (o, addirittura, “innanzitutto”) dalla qualità delle relazioni personali che intercorrono tra i membri. Una rete formale può funzionare solo se, oltre che retta da regole formali chiare e ben definite, è anche corroborata da forti rapporti informali tra gli operatori che la compongono. Citiamo al riguardo:
o la pianificazione strategica di origine statunitense (strategic management), centrata sulla “mission comune”, che tramite la realizzazione di percorsi di confronto e formazione punta, con operatori di diverse appartenenze e ruoli, a metterli fianco a fianco, ad approfondire non solo il “come” ma anche e soprattutto il “perché” del proprio agire;
o gli studi di Friend e Jessop (scuola di IOR: Institute for Operational Research) che rilevano il ruolo decisivo che assumono gli informal network nelle decisioni organizzative e hanno aperto una nuova prospettiva negli studi delle decisioni pubbliche che tradizionalmente enfatizzano, invece, il ruolo delle procedure formali e delle norme.
L’antidoto necessario alla frammentazione degli interventi e degli operatori è dunque la scommessa sulla costruzione di rapporti interpersonali di qualità. La chiave di volta dell’intero discorso è dunque relazionale (2). Andando più a fondo possiamo addirittura dire che tali percorso sono innanzitutto “emotivi ed affettivi”. Si collabora bene se ci si “vuole bene” e se ci si “sente voluti bene”.
Si tratta di un percorso in salita perché le organizzazioni, specie quelle burocratiche, non sono abituate a parlare di sentimenti. Sono attestate sul fare più che sull’essere. È un percorso che chiede in ogni operatore una forte motivazione al servizio, l’apertura alla corresponsabilità e alla condivisione del lavoro, lo sviluppo della coesione di gruppo, la definizione delle competenze e delle azioni di ciascun attore. Occorre altresì imparare a fare comunità, «rimettendosi costantemente in gioco» (3), coniugare la competenza professionale con una necessaria umiltà relazionale (4).
Oggi più che mai gli operatori (pubblici, del privato sociale, del volontariato) e le organizzazioni (istituzioni, servizi e agenzie, cooperative e associazioni, …) non sono pensabili come “chiusi su di sé e autosufficienti”. Occorre comprendere quanto sia vitale e necessario l’essere aperti. Occorre altresì capire che l’esser aperti non è passiva disponibilità, ma attivo impegno nel “prendersi cura dell’altro”, in un’azione di reciproco riconoscimento e condivisione (5).

(1) Maritain J. (1951) Art and Faith, Philosophical Library.
(2) Donati P., Di Nicola P. (2006), Lineamenti di sociologia della famiglia. Un approccio relazionale all’indagine sociologica, Carocci, Roma.
(3) Pazè P. (2008), Fare Comunità, Introduzione a Zappa M., Ri-fare comunità. Aprirsi a responsabilità condivise per chiudere davvero gli istituti, FrancoAngeli, Milano.
(4) Palumbo M. (2001), Il processo di valutazione, FrancoAngeli, Milano.
(5) De Beni M. (2010), Educare. La sfida e il coraggio, Città Nuova Editrice, Roma


SPUNTI PER IL CONFRONTO
Quanto, nella propria esperienza di professionale, il lavoro di équipe/gruppo/rete è influenzato dalla qualità degli assetti formali (definizione di ruoli, funzioni, …)?
E quanto è influenzato dalla qualità delle relazioni informali presenti tra gli operatori?
Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online
 
Messaggi: 29
Iscritto il: 05/03/2013, 20:13

Re: 7. DIMENSIONE “RELAZIONALE” DEL LAVORO DI RETE

Messaggioda LUIGI PICCOLI » 06/05/2013, 14:34

In ventisette anni di attività come Associazione, abbiamo incontrato e lavorato con tanti operatori dei vari servizi pubblici del nostro territorio e possiamo dire di aver maturato diverse esperienze di relazione, le cui caratteristiche vanno al di là del “feeling” o delle specifiche singole competenze personali o professionali.
Nello specifico, anche le modalità/i contesti in cui queste esperienze sono avvenute sono nel tempo cambiate/i: in passato era facile incontrare operatori che, mossi che “ideologie di mandato” della funzione pubblica, cercavano poco la ns. partecipazione, perché “il pubblico” doveva coprire ogni bisogno e accettare la ns presenza, equivaleva ad affermare, nel loro pensiero, che avevano fallito; oggi troviamo spesso operatori che attingono alle risorse del privato sociale, alcuni consapevoli che l’integrazione fra i servizi permette di sviluppare una rete più completa, altri per “succhiare” spunti e risorse che a loro mancano.
Quello che in ogni caso rileviamo è che, per i Servizi, la relazione con le realtà del privato sociale che si occupano di affido comporta la necessità di ampliare la complessità, già notevole, dei progetti di affido, dovendo “fare spazio”, se lo ritengono, ad altri punti di vista e ad altre modalità operative per la definizione di un progetto il più possibile efficace. Questo si rivela un aspetto di affaticamento per le istituzioni. Spesso ci si scontra con la resistenza ad incontrare un pensiero “altro”, magari al di fuori delle ipotesi e dei pensieri fatti “all’interno” dei Servizi, che comporta la necessità di fermarsi, prendere del tempo per fare delle valutazioni, mettere da parte per un attimo il proprio punto di vista, contemplare magari altre possibilità … e in un certo qual modo riflettere sul proprio agire e il proprio pensiero su quel progetto, rischiando di “mettere in discussione il proprio operato”. Quello che spesso rileviamo, è che questo si rivela tanto più faticoso (seppur in linea di massima auspicato dagli stessi operatori) quanto più i Servizi sono oberati di casi da gestire, con poche risorse anche economiche a disposizione, senza a volte il tempo necessario per fare approfondite valutazioni. Una situazione generale di urgenza in cui l’incontro con altri punti di vista, diventa più spesso un ostacolo da superare, perché comporta un allungamento dei tempi o il dover rivedere decisioni o orientamenti già presi, che non un’opportunità da cogliere. Sicuramente le realtà del privato sociale godono di risorse e caratteristiche quali la flessibilità, la semplicità dei processi decisionali, la possibilità di “scegliere” situazioni e progettualità con cui cimentarsi o meno, che non contraddistinguono l’istituzione pubblica, e questo può a volte esacerbare le difficoltà relazionali comunicative e di collaborazione, nel confronto.
Quello che possiamo comunque rilevare è che dopo una prima fase (più o meno lunga, dipende dai reciproci pregiudizi) di conoscenza, studio e accettazione, la collaborazione è senz’altro migliore nei casi in cui gli operatori possono dare continuità di presenza e di azione. Quando la stima e il tempo permettono di accogliere il buono di ogni persona, nascono senz’altro relazioni interpersonali di buona qualità, tali per cui ci si può chiamare anche fuori orario di servizio per un’emergenza, o si riesce a giustificare ed accogliere i reciproci difetti. La definizione dei ruoli e delle funzioni è utile per capire i confini del proprio agire, ma può essere la barriera dietro la quale trincerarsi se si rifiuta, a monte, il pensiero di una reciproca dignità di lavoro.
LUIGI PICCOLI
 
Messaggi: 3
Iscritto il: 18/03/2013, 13:11
Località: affidatario, presidente Ass. Il Noce di Casarsa della Delizia (PN), presidente COREMI FVG


Torna a Laboratorio 3 (NON ATTIVO) - Affido, cultura dell’accoglienza, empowerment comunitario, lavoro di rete [dal 10.3.2013 al 10.5.2013]

cron