3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

L’accoglienza (sia in affido familiare che in comunità) come offerta di relazioni significative; accoglienza, ristrutturazione dei Modelli Operativi Interni (MOI) e fattori di resilienza; gli “standard affettivi” delle comunità con famiglia residente e delle comunità con operatori turnanti; la tutela della continuità degli affetti dei minori in affido e in comunità.

ESPERTI COINVOLTI: Liviana Marelli, Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza; Valter Martini, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; Veronica Pelonzi, Comune di Roma, CNSA – Coord. Nazionale Servizi Affidi; Giulia Palombo, area Comunità Familiari della Federazione Progetto Famiglia; ...

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3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online » 09/03/2013, 5:52

Il 28 giugno 2013 il Tavolo Nazionale Affido ha pubblicato un importante documento (1) sul tema della continuità degli affetti di bambini e ragazzi accolti in affido. Nel documento si precisa: che la tutela degli affetti risponde ad un superiore interesse del minore da tutelarsi al fine di favorirne il benessere e lo sviluppo armonico; che la continuità degli affetti va innanzitutto intesa come tutela delle relazioni precedenti all’affidamento, sia innanzitutto nei confronti della famiglia di origine, sia verso altre figure di riferimento; che vanno tutelati anche gli affetti sorti durante l’affidamento, in particolare tra il minore in affido e la famiglia affidataria e che a tal fine vanno evitate interruzioni traumatiche delle relaziono e/o passaggi ingiustificati in strutture, sia quando si dovesse disporre l’inserimento in un’altra famiglia (affidataria o adottiva), sia quando si decidesse per il rientro nella famiglia d’origine o in quella di parenti; che va salvaguardata anche la continuità dei rapporti affettivi e relazionali sviluppati dai minori durante il periodo di affidamento ad una Comunità, specie se gestite da una coppia genitoriale residente.

(1) Il documento è scaricabile dal sito www.tavolonazionaleaffido.it

SPUNTI PER IL CONFRONTO:
Quali, su tale tema, le buone prassi da diffondere e le cattive prassi da “bollare”?
In quali eccezionali situazioni la continuità dei rapporti affettivi pregressi (con la famiglia di origine, o con la famiglia affidataria o con la comunità educativa o la casa famiglia) non risponde all’interesse primario del minore?
Il Tavolo Nazionale Affido ha manifestato perplessità nei confronti della prassi (in uso nel caso di trasferimento di un minore da una famiglia affidatari ad un ‘altra famiglia) di inserire provvisoriamente il minore in una comunità in nome di una presunta necessità di un suo “decongestionamento affettivo”, come preparazione al suo nuovo inserimento familiare. Sia perché, con le dovute attenzioni, può essere positivamente realizzato il passaggio diretto da una famiglia ad un’altra, sia perché appare fallace ritenere che le comunità residenziali siano dei contesti affettivamente neutri (occorrerà piuttosto ricorrere consapevolmente alle comunità, in quei casi specifici e circostanziati in cui il minore manifesti bisogni tali da richiederne gli specifici interventi) sia perché da un’esperienza di attaccamento il minore potrà affidarsi con sicurezza ad altri adulti e creare nuovi sani e sicuri legami. Quali le considerazioni scientifiche ed esperienziali a supporto o a detrimento di tale approccio?
Progetto Famiglia, coordinamento del FORUM AFFIDO online
 
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Re: 3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda G.DelGiudice » 26/03/2013, 23:45

La tutela degli affetti ed in particolare della relazione con la famiglia d'origine, assume una dimensione di rilevanza fondamentale per il bambino. Purtroppo il ruolo dell'assistente sociale è ancora permeato di una visione negativa e la componente di controllo, in caso di mandato dell'autorità giudiziaria, condiziona ancora di più la relazione d'aiuto con la famiglia d'origine. L'attenzione deve essere posta nei confronti della famiglia affidataria che, opportunamente preparata e sostenuta, può svolgere il ruolo di ponte con la famiglia d'origine, dando la possibilità al bambino di fare sintesi e riuscire a sviluppare un'appartenenza condivisa. In questo i bambini hanno risorse proprie. E' particolarmente significativo il caso di una bambina che ho seguito, all'età di cinque anni è stata accolta in famiglia affidataria, manifestava diversi disturbi legati a un vissuto di abbandono ed una difficoltà nel lasciarsi "curare" dalla famiglia. Il sostegno alla famiglia affidataria, il ruolo da questa svolta nei confronti della madre della piccola, il sostegno terapeutico alla bambina, ha fatto si che la piccola riuscisse a sviluppare una doppia appartenenza. In un disegno si rappresentò come una bambina con due cuori, uno per la mamma affidataria e uno per la mamma naturale. La psicoterapeuta che l'aveva in carico così la descriveva: "A. ha iniziato a capire di avere nel cuore due mamme, non in contrasto tra loro, ma complementari, in grado di amarla e ciò l'ha notevolmente rassicurata.
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Re: 3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda Rossna Ragonesse » 30/03/2013, 18:49

Non si può chiedere ad un bambino (e a nessuna persona) di dimenticare un legame, né si può chiedergli di non attaccarsi in una nuova situazione considerandola provvisoria. Tale richiesta non è corretta dal punto di vista scientifico; dalla Teoria dell’attaccamento e dai recenti studi della neurobiologia e della psicologia sul tema dell'intersoggettività umana, si deduce che è inumano non stare nella relazione. Quello che si può invece proporre e chiedere è il passaggio alla trasformazione dei rapporti: i rapporti umani ed i legami si trasformano, non si cancellano; si può dare loro un significato diverso, nuovo, magari anche doloroso ma autentico e che abbia un senso. Questo è il compito dei genitori affidatari ed il valore dell’affido familiare
Consulente Familiare, Sostegno alla genitorialità adottiva e affidataria, Insegnante - Arezzo
Rossna Ragonesse
 
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LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda CegliaADV » 02/04/2013, 16:24

Nella nostra esperienza abbiamo sperimentato che mentre è molto difficile a causa del conflitto di lealtà che fortemente si instaura, il passaggio diretto da famiglia d'origine a famiglia affidataria, il passaggio da una famiglia affidataria ad un'altra è assolutamente possibile, senza il periodo di "decantazione" in comunità. Ci siamo resi conto che gli operatori spessono vivono la chiusura di un affido come un'esperienza estremamente drammatica per loro stessi e per il minore, per cui appare prematuro presentare immediatamante un'altra possibilità familiare. In realtà i bambini riescono molto meglio ad elaborare i limiti degli adulti e se entrambe le famiglie sono ben preparate (una a chiudere nel migliore dei modi, l'altra ad accogliere un bambino sofferente e un po' sfiduciato) il passaggio può avvenire con successo. Un affido che si chiude può evidenziare degli errori nella valutazione del nucleo più adatto per quel minore, per cui si coglie quella variabile che modificata, permette un'accoglienza più funzionale (ad esempio coppia con figli o senza).
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Re: 3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda CARLA FORCOLIN » 22/04/2013, 9:46

PROTEGGERE I LEGAMI AFFETTIVI DEI BAMBINI CHE NON CRESCONO NELLA FAMIGLIA D’ORIGINE SIGNIFICA INSIEME DIVENTARE MENO ADULTO-CENTRICI E RILANCIARE L’ISTITUTO DELL’AFFIDAMENTO

PREMESSA - Avete mai visto i bambini di pochi mesi in un orfanotrofio del “mondo povero”? Stanno nelle culle, silenziosi, e si rianimano solo quando qualcuno, per nutrirli o cambiarli, li avvicina. Davanti a un sorriso, a una voce umana, i loro occhi si accendono, cambiano luce, ma quando la persona che li ha salutati, anche senza toccarli, se ne va, quando non risponde più ai loro vocalizzi, ridiventano opachi. Quanto soffrono quei bambini? Io credo in maniera indicibile. Non sanno se qualcuno verrà a dar loro da mangiare quando hanno fame, se potranno sopravvivere. Vivono nella paura di morire e in un’ansia di separazione costante. Erano uniti a un’altra vita, in un ventre caldo, e ne sono stati espulsi. La loro fonte di vita non c’è più. Sono rimasti senza la mamma, di cui hanno bisogno per vivere.

ADOZIONE E AFFIDAMENTO - Ai bambini senza mamma la società degli adulti, se e quando può, offre una madre sostitutiva, che svolge le sue stesse funzioni. Di solito, una mamma adottiva. Ma non sempre si può accedere subito all’adozione: nel mondo occidentale in particolare, prima di assegnare una madre adottiva a un bimbo, si vuole essere sicuri che la madre naturale sia morta o non lo voglia proprio più, perché spesso il bambino, prima di essere dichiarato adottabile, l’ha conosciuta e ha fatto in tempo ad attaccarsi a lei. Nell’attesa, un’attesa che può durare anni, specialmente se la madre è affetta da forme di incapacità genitoriale o è tossicodipendente o ha una malattia mentale, si dà al bambino una mamma affidataria o, meglio, una famiglia affidataria. La famiglia adottiva sa di essere divenuta, per decisione delle istituzioni e per sempre, la famiglia del bambino accolto. Quella affidataria sa invece di svolgere un ruolo di sostituto genitoriale a tempo. E’ impossibile spiegare a un bambino piccolo questa distinzione: egli non sa nulla di istituzioni. Però “sente” quello che c’è nell’anima di chi lo accudisce, avverte se finalmente qualcuno, famiglia adottiva o affidataria che sia, lo accoglie con sé, ascolta i suoi bisogni, gli dà risposte adeguate. Infatti il bambino abbandonato, anche dopo essere stato accolto in una nuova famiglia, è incerto, spaventato, mette alla prova le persone che si occupano di lui, crede di essere privo di valore (perché questo è il messaggio che l’abbandono gli ha trasmesso), e chi lo accoglie deve fargli sentire che un simile abbandono non ci sarà mai più. Ma se i genitori adottivi possono trasmettere un simile messaggio, quelli affidatari non possono.

RIPIOMBARE NELLA DISPERAZIONE - Al bambino posto piccolissimo in affidamento vengono trasmessi due messaggi contrapposti: uno verbale e logico (tu non sei nostro figlio, sei solo una persona cara, la tua famiglia è un’altra), uno fisico e analogico (ti teniamo accanto, sei la persona più preziosa di questa casa, qui tutti ti amano). Non è strano che lui privilegi quello analogico, spinto dal suo bisogno e dal suo desiderio di integrazione nella famiglia. Un bimbetto in tale situazione attaccò una sua fotografia a quella della famiglia prima del suo arrivo. E molti piccoli in affidamento si presentano con il cognome della famiglia affidataria ai compagni di scuola materna, specialmente se dal loro aspetto si capisce che sono stranieri.
Un bambino cresciuto in affidamento in una famiglia, e dalla stessa separato – per rientrare nella talora semi-sconosciuta famiglia d’origine o essere posto in adozione – si sente abbandonato di nuovo e ripiomba nella tristezza sconfinata di chi è separato dall’affetto della madre, del padre, dei fratelli. Se poi la scomparsa di quei legami riparatori si accompagna al venir meno di altre persone care, come gli amici e i maestri, e di luoghi noti (anche la “patria” è madre), la disperazione e il disorientamento sono profondissimi. Solo nuovi legami di altissima qualità, duraturi nel tempo, possono rassicurare chi subisce perdite ripetute di questo tipo; talora, però, il ripetersi di tali perdite rende le persone incapaci di abbandono e di fiducia per sempre, da piccole e da grandi.

INTEGRARE LE ESPERIENZE POSITIVE - Che fare? Rinunciare all’istituto dell’affidamento per non sommare le perdite? Di certo non è questa la soluzione al problema di chi è abbandonato e non è sicuro se andrà in adozione. Meglio essere stati amati a tempo di non esserlo stati affatto, per i primi anni di vita, i più preziosi; meglio aver assaporato l’amore, che non sapere nemmeno che cosa sia la dolcezza. Ma infinitamente meglio prevenire eventuali passaggi da una famiglia all’altra, attuando forme di adozione aperta, o adozioni a rischio giuridico, o comunque facendo in modo che tutti i rapporti positivi di un bambino prima o poi si integrino invece che disseminare la sua vita di lutti e separazioni. Essere separati da ciò che ci è caro è dolorosissimo e la separazione definitiva è una forma di morte, la morte di un rapporto. Se poi quel rapporto è con la madre o il suo sostituto, che della madre non è affatto meno prezioso, esso sorregge la vita interiore del bambino e la separazione forzata è un lutto serissimo. Negli affidamenti ben riusciti di neonati, che si prolungano per anni, succede proprio questo: al momento della separazione dalla famiglia affidataria viene tolto al bambino ciò che per lui più è vitale, e si capisce benissimo come mai gli occhi dei bambini separati d’autorità dai sostituti genitoriali siano simili agli occhi dei neonati orfani. Ma nessuno di coloro che hanno voluto mantenere leggi che permettono questi lutti e che le applicano alla lettera, convinti di fare il bene dei “fanciulli”, va ad osservare quei bambini dopo che hanno cambiato famiglia.

LA NEGAZIONE DEI SENTIMENTI - I bambini (e gli adulti) che abbiano subìto la morte reale di un genitore (o di un figlio) vanno rassicurati circa il fatto che il loro dolore è più che mai condivisibile e lecito, e che loro non potevano fare nulla per fermare il decorso di una malattia mortale o il verificarsi di una disgrazia.
Vanno cioè sollevati da uno schiacciante senso di colpa, che negli esseri umani si accompagna sempre alla disgrazia. Così andrebbero trattati anche i bambini che hanno subito un distacco definitivo, voluto dalle istituzioni, da una buona famiglia affidataria, scelta in cuor loro come la propria. A questi bambini andrebbe spiegato che non sono stati rifiutati perché indegni di amore. Ma questa rassicurazione non arriva quasi mai. Poiché l’affidamento non è l’adozione, le istituzioni che non hanno decretato la liceità dell’affetto tra affidato e affidatari negano i sentimenti dell’uno e degli altri con il silenzio. Non si ammette mai che ci possano essere rapporti tenerissimi tra affidatari e affidati; se si creano, si ritiene che gli adulti abbiano sbagliato in qualcosa. Ma che cosa dovrebbero fare, questi adulti? Abbracciare il bambino mettendo fra sé e lui una barriera?
Respingere il bambino che ha incubi notturni, quando arriva al loro letto per cercare consolazione?
Lavarlo con i guanti di gomma? Con i piccoli non si può agire diversamente da come agirebbe qualsiasi genitore biologico o adottivo. A poco serve che non si insegni al bambino a chiamare mamma e papà gli affidatari, se si adempie ai ruoli materno e paterno.

STORIE “VECCHIE” E NUOVE
MONICA arrivò nella famiglia affidataria a sei mesi, un periodo durante il quale non era quasi mai stata sollevata dalla culla, al punto che non aveva capelli sulla nuca. I suoi genitori erano tossicodipendenti e a loro erano già stati tolti altri figli, poi posti in adozione. Con mamma, papà e fratello affidatari visse il tempo necessario per imparare a camminare, a parlare e a giocare. Quando sentiva il cane abbaiare alla sera diceva sorridendo “mamma” (era la mamma che tornava dal lavoro). Poi venne dichiarata adottabile. La coppia adottiva individuata dal Tribunale per accoglierla gradualmente fu mandata nella casa degli affidatari, ma non volle prendere Monica con sé: troppo dolorosa era per quella coppia la sensazione di appropriarsi di una bimba che aveva già una famiglia negli affetti. La bimba venne allora portata in un istituto e posta nuovamente in adozione, perché la nuova coppia adottiva non potesse vedere la sua reale situazione e la
bambina non percepisse la nuova famiglia come causa della perdita della vecchia. Quando la famiglia affidataria, che l’aveva cresciuta per circa un anno, chiedeva sue notizie all’assistente sociale, la risposta era sempre “sta bene”.
BEATRICE (divenuta famosa per la condanna dell’Italia alla Corte di Strasburgo) rimase 20 mesi nella famiglia affidataria, con una sorella ormai ventenne, un fratello di dieci anni che l’adorava e genitori affettuosi. Aveva passato i primi 40 giorni di vita in ospedale, in incubatrice, poi era approdata alla famiglia affidataria grazie all’associazione che aveva aiutato anche sua madre. Qui si era perfettamente integrata: giocava e rideva con il fratello maggiore, civettava con il papà, si aggrappava alla mamma se non stava bene. Venne portata nella famiglia adottiva poco prima delle vacanze di Natale, dopo due soli incontri di preparazione. Di lei si seppe che aveva avuto un periodo di profonda depressione, da cui si era ripresa grazie alle cure affettuose dei genitori adottivi, sostenuti a loro volta da psicologi. Il ricorso degli affidatari alla Corte d’appello del Tribunale dei Minorenni di competenza portò a una sentenza rivoluzionaria: era stato sbagliato, cioè contrario all’interesse della bambina, toglierla dalla famiglia in cui si trovava. Ma i tempi per portare a termine il ricorso erano stati tali che pareva ormai inopportuno farla tornare indietro, dopo che si era faticosamente inserita nella nuova casa. Beatrice rimase così nella famiglia adottiva.
PAOLO giunse nella famiglia affidataria già grandicello, dopo aver subito maltrattamenti, percosse e traumi da parte della madre. Non aveva mai avuto un vero padre e qui lo trovò. Metteva la famiglia affidataria sempre alla prova, combinava ogni sorta di guai, finché l’affettuosa fermezza dei genitori non lo convinse ad “arrendersi”. L’assistente sociale, che aveva individuato la famiglia affidataria, si era preoccupata del suo futuro e la famiglia che lo aveva accolto aveva già adottato una bimba. Avrebbe potuto adottare anche lui e questi furono in effetti gli accordi iniziali: ma poi il bambino cambiò assistente sociale e la seconda operatrice aveva opinioni diverse dalla prima. Non volle nemmeno considerare l’opportunità che il piccolo restasse dov’era (considerava forse che una simile ipotesi costituisse una violazione della legge?). Paolo era appena diventato un bambino sereno e affettuoso con i genitori e la sorella, che dovette lasciarli per andare in adozione presso un’altra famiglia: regredì nello sviluppo e divenne violento nei comportamenti.
In tutti questi casi le famiglie affidatarie avrebbero voluto adottare i bambini che avevano accolto e che nel corso dell’affidamento erano divenuti adottabili. Monica, Beatrice, Paolo e mille altri non avrebbero dovuto essere separati dalle loro famiglie nell’affetto, avrebbero dovuto essere adottati nelle famiglie in cui già si trovavano, applicando semplicemente le possibilità che la legge sull’adozione consente (art. 44 della legge 184/83, ora art. 25 della legge 149/01). Così non è stato. Questi bambini – e tanti altri come loro o peggio di loro (nel 2012 una bimba, rimase in affidamento per otto anni, prima di ritornare nella famiglia d’origine) – hanno dovuto subire per legge la perdita di coloro che ai loro occhi erano ormai diventati genitori amatissimi, che avevano saputo curare
le loro ferite e ridare loro fiducia in sé e nella vita.

QUANDO GLI AFFIDATARI ABBANDONANO GLI ADOLESCENTI - Ma accanto a loro, bambini privati degli adulti di riferimento, cioè di persone capaci di amarli e di assumersene la responsabilità, ci sono casi come quello di ALICE. La ragazzina, posta in affidamento intra-familiare a un anno e mezzo presso gli zii, è giunta al compimento dei 18 anni sempre in affido. A lungo si è sentita parte della famiglia affidataria, eppure, divenuta maggiorenne, è stata legalmente sbattuta fuori di casa senza un lavoro e un alloggio precedentemente preparati. La sua storia è raccontata sulla rivista “Minori/Giustizia” n 1/2011. Come Alice devono essere considerati tutti gli adolescenti, maschi e femmine, che non sono mai stati posti in adozione o che gli affidatari non hanno voluto adottare una volta giunti all’età dell’adolescenza. Se non si fossero aspettati troppi anni prima di porre questi bambini in adozione, se essi fossero stati offerti agli affidatari in adozione prima che l’età li rendesse più ribelli e “difficili”, come capita a tutti durante l’adolescenza, questo non sarebbe successo.
Pensare che il rapporto genitoriale è per sempre o che è a tempo, che cioè si può recidere se agli adulti o anche ai ragazzi non piace più, fa un’enorme differenza. L’affidamento è un istituto “ a tempo” e tale dovrebbe essere mantenuto. Ma in tutti i casi in cui l’adozione non è possibile e l’affidamento si prefigura a lungo termine ci vorrebbero famiglie accoglienti disponibili in partenza sia all’affido che all’adozione. Questo comprensibilmente non piace agli operatori, che temono da parte delle famiglie affidatarie atteggiamenti appropriativi anche di ragazzi che avrebbero il diritto di tornare nella famiglia d’origine. Bisogna valutare situazione per situazione quale sia il male e il pericolo minore nella prospettiva che il ragazzo/a non più piccolissimo si trovi privato anche dei sostituti genitoriali. Non si può ridurre la vita di una persona ad una serie di segmenti separati, ad una catena di interventi, sui cui anelli i diversi operatori fanno delle scelte a seconda delle competenze territoriali, dei congedi, ecc... Un minore privo della famiglia d’origine che nell’affidamento ha trovato degli adulti capaci di amarlo, ha avuto fortuna nella sua disgrazia originaria e quella fortuna non deve essere sottovalutata dagli operatori. Qualora, dopo due anni di affidamento, le prospettive di ritorno nella famiglia d’origine divenissero più precarie, il legame con la famiglia affidataria dovrebbe cambiare natura. Attendere troppo significa rischiare di far rifiutare l’affidato/a da adolescente. Se questo appare una via alternativa all’adozione, poco rispettosa degli aspiranti genitori adottivi, si possono trovare dei rimedi al problema (non è questa la sede per cercarli), ma la non parcellizzazione della vita delle persone rimane un obbligo morale ineludibile da parte di chi se ne prende cura.

SEPARAZIONI INEVITABILI : UN DOLORE CHE CI RIGUARDA - Inoltre è giunta l’ora che, se e quando le separazioni sono inevitabili, qualcuno – nei servizi, nei tribunali e nelle associazioni di volontariato – si ponga il problema di curare la sofferenza inferta a grandi e piccoli con l’interruzione forzata del rapporto. E il dolore si cura divenendone consapevoli e condividendolo. Si cura liberandolo da pesanti sensi di colpa e inadeguatezza, senza minimizzarlo. Dobbiamo pensare che alcuni bambini sono stati costretti a cambiare relazioni primarie e secondarie, ambienti e abitudini, talora persino la lingua madre. E che certi lutti vengono percepiti già in anticipo dai bambini, che colgono l’imminente separazione prima ancora che venga loro comunicata, attraverso l’intuizione dei sentimenti dei grandi. I bambini non si vergognano di esprimere i propri sentimenti a chi li ha sempre capiti. E si preoccupano per sé e anche per il vuoto che lasceranno in chi li ama. Chi è stato separato dalle persone con cui viveva e a cui voleva bene, ha bisogno almeno di qualche telefonata, di qualche incontro con chi è rimasto nel suo cuore. Ma forme di rapporto tra le famiglie che abbiano successivamente accolto un bambino non sono previste per legge, e sono poco attuate nei fatti. Anzi, sono spesso viste come un ostacolo all’attaccamento fra il bambino e la famiglia che lo ha accolto per ultima, specialmente se si tratta di una famiglia adottiva. Così i piccoli sono lasciati soli, con la fantasia di essere stati ancora una volta abbandonati, con i loro sensi di inadeguatezza e di colpa, e gli ex-affidatari rimangono a chiedersi se abbiano omesso di fare qualcosa per proteggere i bambini.

LA PROSPETTIVA CHE PROPONIAMO - La separazione obbligatoria, senza il diritto di frequentare chi si è cresciuto, non favorisce l’affidamento e addirittura porta la gente ad identificarlo con la sua triste ed aspra conclusione, anche se ci sono molti affidamenti che si concludono bene, con il rientro a casa dei bambini che sono stati per un breve periodo in una famiglia “amica”, che tale rimane. Affidamento e separazione forzata dalle persone care a molti appaiono sinonimi: non dimentichiamo che spesso è dolorosissimo anche il distacco iniziale del bambino dalla famiglia d’origine e soprattutto dalla mamma, perfino quando la stessa lo maltratta. Per evitare nell’immaginario comune tale sovrapposizione (affidamento=distacco), servizi e tribunali si devono porre il problema di evitare di costellare la vita dei bambini più sfortunati con rapporti affettivi interrotti, sia attualmente, a legislazione invariata, sia nell’ipotesi di auspicabilissime riforme mirate, sia di eventuali circolari applicative della legge 149/01.
CARLA FORCOLIN
 
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Re: 3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda MARIANNA GIORDANO » 28/04/2013, 16:19

L'Orsa Maggiore (ww.orsamaggiore.net) svolge da diversi anni un servizio di sostegno al legame tra bambini in affido e genitori nell'ambito di CeSTA - Centro sostegno e tutela dell'affido. inizialmente con un contributo del Comune di Napoli e poi in autofinanziamento.
Abbiamo pubblicato con Chiara Capasso sul numero "Maltrattamento e abuso all'infanzia" (marzo 2013 - volume 15, n. 1). una riflessione sull'esperienza che realizziamo, sulle opportunità e il valore e sulle difficoltà nella manutenzione dei legami
MARIANNA GIORDANO
 
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Re: 3. LA TUTELA DELLA CONTINUITÀ DEGLI AFFETTI DEI MINORI

Messaggioda FRANCESCA GAGLIONE » 13/05/2013, 11:43

E’ senz’altro condivisibile la perplessità nei confronti della prassi di inserire provvisoriamente il minore in una comunità in nome di una presunta necessità di un suo “decongestionamento affettivo”, come preparazione al suo nuovo inserimento familiare. Ciò non solo nel caso di trasferimento di un minore da una famiglia affidataria ad un’altra ma, come spesso avviene, anche nel caso di trasferimento del minore dalla famiglia d’origine a quella affidataria. Il passaggio attraverso il “luogo neutro” non può trovare condivisione per le ragioni compiutamente esposte dal Tavolo Nazionale Affido, purtuttavia lo stesso rientra nell’attenta valutazione del progetto di affido che si intende realizzare. “La preparazione” all’affido familiare in comunità si può rendere necessario qualora vi sia un allontanamento urgente del minore dal suo ambiente di vita, ragione per la quale, anche in presenza di un progetto di affido, è indispensabile rispondere all’immediata esigenza di protezione del bambino. Allo stesso modo, nei casi di affido non consensuale oppure quando la famiglia d’origine si pone con ostilità o diffidenza nei confronti del possibile affidamento, il passaggio intermedio in comunità può essere utile ad evitare che i familiari compromettano la fase delicata di avvicinamento e conoscenza reciproca tra il bambino e la famiglia affidataria, il cui buon andamento è fondamentale nel determinare le possibilità di successo dell’affido stesso.
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