C’è una frase di don Antonio Mazzi, assai significativa: «il disagio è effetto, non causa» [color=#FF0000](1)[/color]. Effetto di tanti avvenimenti e vicende ma, soprattutto, effetto della solitudine. Don Mazzi ne parla facendo riferimento ai tossicodipendenti. Si tratta tuttavia di un concetto a valenza universale e quindi applicabile anche al campo delle famiglie in difficoltà. Ad uno sguardo attento e libero da pregiudizi appare chiaro che la causa del disagio di molte famiglie è il loro essere “escluse”, e ancora prima il loro essere semplicemente “famiglie sole”. Questo ci permette di affermare che la lotta al disagio familiare e minorile è la lotta alla solitudine non solo dei bambini e dei ragazzi, ma anche delle loro famiglie. Secondo questa traiettoria l’attivazione di una rete di reciprocità tra famiglie può divenire un importante risorsa per favorire l’affrancamento dalle situazioni di disagio relazionale e sociale che investono le cd. “famiglie di origine”. Uno spunto interessante viene offerto da una pubblicazione della rete dei volontari Salesiani sul tema della solidarietà familiare[color=#FF0000] (2)[/color] nella quale si sottolinea che: «il primo passo per risolvere una situazione di disagio è aiutare ogni membro della famiglia a riconquistare la propria dignità (…) È all’interno di una relazione confidenziale tra pari, da famiglia a famiglia, che possono essere cercati ed espressi gesti e contenuti che aiutano a recuperare e favorire il protagonismo personale e familiare di chi vive in situazioni di disagio (…) Le “famiglie difficili” nel momento in cui sono considerate non utenti ma partner sono messe nella condizione di agire come soggetti sociali …».
Occorre farsi promotori di un lavoro di costruzione di spazi aggregativi permanenti tra famiglie, in micro-contesti sociali circoscritti (parrocchia, rione, ecc), finalizzati alla promozione di forme di aggregazione capaci di stimolare rapporti di fiducia, di consolidare l’appartenenza comunitaria e l’attivazione di reti di vicinanza. L’assioma di fondo è quello del superamento della dicotomia “famiglia-risorsa”/”famiglia-bisogno” (che sottende un approccio clinico) a favore di un nuovo approccio in cui più famiglie insieme si concepiscono “alla pari” e puntano a valorizzare “la relazione” aldilà delle etichette del disadattamento sociale. Un approccio “non formale” ed eminentemente preventivo, che si incentra sulla convinzione che ogni persona, anche la più disagiata o problematica, ha insito in sé un potenziale relazionale: è cioè capace di mettersi in relazione. Tale approccio è prodromo di partecipazione sociale attiva e di superamento dell’assistenzialismo e della dipendenza. Per poter incontrare veramente chi vive nel bisogno, bisogna che noi stessi si calchi il terreno del bisogno, in modo che tale suolo diventi a noi familiare e non più estraneo, e che sia “normale e spontaneo” intervenire, giacché vi si parla un linguaggio a noi noto. Questo approccio elimina atteggiamenti di beneficenza: non c’è più un “up” e un “down”, si è tutti sullo stesso livello, a scambiarsi beni e relazioni.
[i][size=85](1) Agazzo R. (2006), Elogio del somaro, San Paolo, Milano.
(2) Cursi G., Goso N. (2008), Famiglie solidali: percorsi di impegno tra disagio ed accoglienza, Federazione SCS/CNOS Salesiani per il sociale, Roma.[/size][/i]
[b]SPUNTI PER IL CONFRONTO [/b]
Famiglie Insieme, famiglie “alla pari”, famiglie “comunitarie”. Quali i punti di forza e i rischi di quest’approccio e quali le esperienze significative in questo campo?
In quale misura, a quali condizioni è possibile camminare in questa direzione?
Qual è il ruolo degli operatori professionali nella costruzione di tali percorsi?