Pagina 1 di 1

Affiancamento familiare e accompagnamento delle madri sole

MessaggioInviato: 29/03/2016, 15:31
da Roberto Maurizio
L’esperienza, come sottolineato nei post già inseriti, ci dice che quando un nucleo familiare si trova a fronteggiare contemporaneamente diverse problematiche diventa essenziale la rete di sostegno intorno ad esso. Purtroppo, la situazione dei nuclei madre-bambino accolti in una comunità residenziale raramente presentano reti sociali significative e capaci di sostenere. È proprio la loro mancanza o la loro debolezza o la loro fragilità o la loro ambivalenza che determinano il loro essere/divenire un fattore critico ulteriore, con cui il nucleo familiare deve confrontarsi, piuttosto che una risorsa su cui contare.
Essere in comunità, per un nucleo mamma-bambino, è di per sé segno di una situazione altamente complessa, spesso altamente problematica, per i fatti contingenti che hanno portato all’inserimento e per le storie personali e familiari che le persone portano con se entrando in comunità. Gli aspetti da considerare sarebbero, quindi, molti ma in questa sede ne vorrei considerare in modo particolare due.
Un primo aspetto da considerare, riferendoci ai nuclei madre-bambino in accoglienza residenziale che hanno alle spalle una storia di nucleo familiare completo (e non di maternità senza padri), è la storia dell’inserimento (se connesso ad una situazione di emergenza legato a abusi, violenze, minacce, conflitti elevati o se connesso ad un progetto di revisione della relazione di coppia e familiare). La presenza o meno del marito-coniuge-convivente o la sua assenza (che potrebbe essere definitiva, solo temporanea, ancora da definirsi con precisione) è un aspetto centrale del progetto di accoglienza e di supporto alla genitorialità. Più in generale vi è da capire se il progetto di accoglienza residenziale è orientato verso una prospettiva di ricostruzione dei legami familiari (se c’erano prima, ovviamente) o verso una loro definitiva chiusura con la necessità di capire, in entrambi i casi ma ancora più in questa secondo prospettiva, se e come dare continuità ai legami genitoriali.
Nel periodo di accoglienza in comunità di una mamma con il figlio (qui considero la situazione più semplice, ma sappiamo che, a volte, la realtà è molto più complessa, con più figli insieme collocati in comunità con la mamma o più figli collocati in situazioni di accoglienze diverse, anche pregresse) il compito degli educatori della comunità e del servizio sociale di riferimento è molto difficile, a mio avviso sicuramente più difficile delle sole situazioni di minori accolti in comunità. In questo caso, infatti, la comunità spesso si trova a operare per tutelare il figlio da situazioni pregiudiziali connesse a comportamenti del padre (o del convivente/marito della madre che potrebbe non essere suo padre) ma, la comunità, sovente, si trova a operare per tutelare il figlio da inadeguatezze genitoriali connesse a comportamenti della madre, peggio ancora se di entrambi gli adulti. La comunità, quindi, non può dare per certo il progetto genitoriale futuro imperniato sulla madre né quello imperniato sulla coppia di genitori. Anche perché neanche il livello di consapevolezza della madre sulla situazione che sta attraversando e sul motivo del collocamento e sul progetto connesso al collocamento in comunità non sempre è elevato. In più, per alcune donne accolte si presenta una situazione di ambivalenza dei propri sentimenti verso il partner e, più in generale, dell’idea/desiderio circa il proprio futuro.
Tutto è da costruire, da sviluppare e, sovente, con un mandato dell’autorità giudiziaria che considera il periodo di accoglienza mamma-bambino come un periodo di ultima prova prima di arrivare, alla decadenza delle responsabilità genitoriali e all’apertura dello stato di adottabilità.
Un secondo aspetto particolarmente rilevante è l’età della mamma accolta (ed anche del bambino). Sinteticamente si può affermare che la situazione è profondamente diversa se ci si trova di fronte a una donna matura, con anni di storia di coppia/e, di legami familiari, di genitorialità (che possono essere stati nella loro globalità o meno critici e faticosi) o a una ragazza giovane, con storia frammentate, veloci e/o inesistenti di coppia/e, di legami familiari e con genitorialità ancora da costruire.
Le prospettive educative dell’accoglienza cambiano profondamente: nel primo caso si tratta di capire la storia per comprendere quali aspetti di quella storia porre al centro dell’accoglienza e del progetto come risorsa da valorizzare e su quali intervenire nella logica del supporto alla genitorialità mentre nel secondo caso si tratta di comprendere, come sostenere questa ragazza (ancor più se minorenne essa stessa) nel processo di consapevolezza e maturazione di se come donna, mamma, e se esistono le condizioni, di compagna di…
Tutto quindi sembrerebbe giocare a sfavore degli operatori della comunità, chiamati a accogliere, aiutare, sostenere, supportare ma, anche, a tutelare, osservare, vigilare, valutare, concorrere ad una decisione particolarmente difficile. Un compito davvero difficile.
In questo quadro, la comunità, anche la migliore, difficilmente è sufficiente. Oltre a sostenere il mantenimento e rafforzamento di legami con reti relazionali primarie del nucleo-familiare (intra ed extra parenti), la comunità può diventare una preziosa opportunità di incontro anche con nuclei familiari che possono ampliare la rete sociale primaria di riferimento.
Una famiglia che vive nei pressi della comunità, conosciuta nel periodo di vita in comunità, rappresenta una risorsa durante l’accoglienza e in prospettiva. Durante perché permette di aumentare e diversificare le opportunità di supporto alla genitorialità, e più in generale di supporto alla costruzione del progetto di vita del nucleo familiare) permettendo alla mamma processi di riflessione e scambio che possono esprimersi con codici relazionali diversi (professionale, non professionale).
Se questo già può avvenire nel corso dell’accoglienza residenziale non vi è motivo per escludere questa opportunità nella fase di transizione dall’accoglienza residenziale alla semiautonomia o all’autonomia completa. I rapporti di fiducia costruiti nel periodo di vita residenziale si possono proseguire e coltivare (senza obblighi e automatismi) anche nell’uscita dalla comunità.

Se l’affiancamento familiare è uno strumento o, meglio, una strategia di intervento che servizi pubblici e privati possono utilizzare in molteplici situazione di fragilità e vulnerabilità familiare la sua utilizzabilità si estende anche ai nuclei familiari mamma-bambino (o papà-bambino, anche se numericamente ancora ridotti) quando sono accolti in una comunità residenziale. Diverse comunità di accoglienza operano già in questa direzione, considerando questo impegno come uno stile di lavoro della comunità. Personalmente riterrei opportuno andare oltre la dimensione dello stile arrivando a esprimere l’idea che il progetto di presa in carico di una mamma-bambino in comunità predisposto dai servizi sociali con la collaborazione degli educatori di una comunità non possa esimersi dal adottare questo sguardo plurimo, finalizzato ad aumentare le opportunità di supporto durante e dopo l’accoglienza. In altri termini mi piacerebbe che la possibilità di costruire esperienze di affiancamento a nuclei mamma-bambino accolti in comunità, escano dal campo delle attività opzionali dell’ente gestore della comunità per entrare a pieno titolo nel progetto di presa in carico guidato dai servizi sociali.
Solo in questo modo sarà possibile un fecondo dialogo tra assistenti sociali e educatori intorno al modo come si costruiscono le opportunità di relazione tra le mamme e altre famiglie, come si selezionano queste famiglie, come si inseriscono nella vita di comunità, come si costruisce, con loro, il progetto di passaggio verso l’autonomia del nucleo accolto operando in questa prospettiva sin dall’inizio dell’accoglienza e non solo nel momento delle dimissioni. La famiglia risorsa, ovvero la famiglia affiancante, potrebbe in una prospettiva minimale entrare in gioco solo al momento dell’uscita del nucleo mamma-bambino dalla comunità (con la necessità di costruire un rapporto di conoscenza-fiducia partendo da zero) o massimale, entrando in gioco già durante il periodo di accoglienza residenziale per sviluppare il processo di conoscenza-fiducia prima delle dimissioni e per evitare che la relazione nucleo mamma-bambino e famiglia affiancante dopo l’uscita si caratterizzi principalmente come risorsa pratica o che venga vissuta come un prolungamento del controllo operato dalla comunità e dai servizi.

Re: Affiancamento familiare e accompagnamento delle madri so

MessaggioInviato: 11/04/2016, 10:04
da ANTONELLA VIOLA
Condivido l'importanza di facilitare la creazione di una rete di supporto, confronto, relazione per i nuclei mamma-bambino che temporaneamnente risiedono in struttura. La permanenza in comunità è una fase molto significativa per promuovere progetti di vita che accolgano la storia passata e favoriscano la costruzione consapevole del proprio futuro. Il lavoro psicopedagogico è finalizzato a promuovere, per le mamme e i bambini, occasioni di intimità relazionale, di sperimentazione e di potenziamento delle competenze genitoriali in un’ottica che favorisca l’autonomia dei singoli nuclei accolti.
Altrettanto impegno richiede la costruzione di elementi protettivi che favoriscano l'uscita e la vita autonoma. La rete è uno di questi elementi. Con i colleghi dell'equipe affido dell'Associzione "Il Noce" stiamo approfondendo proprio questo tema per motivare e formare famiglie disponibili all'affido a immaginarsi e sperimentarsi come famiglie che affiancano un nucleo mamma-bambino, già nel tempo della permanenza in struttura e poi nella vita di ogni giorno.
Antonella Viola - Casa mamma-bambino "Il Noce" - Associazione "Il Noce" di casarsa della Delizia (Pn)