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4. QUALE PRIORITÀ TRA AFFIDO FAMILIARE E COMUNITÀ?

MessaggioInviato: 02/06/2014, 14:12
da admin_affido
Le indicazioni legislative di cui sopra, brevi e dense, vanno accompagnate da alcune precisazioni.
È innanzitutto opportuno chiarire cosa si intende per “impossibilità di affidamento”, per non cadere in approcci ideologizzati incapaci di compiere le scelte più adeguate alle esigenze dei singoli bambini e adolescenti. Difatti, interpretando il secondo comma alla luce del primo, possiamo asserire che gli affidi “non possibili” ricorrono in due casi:
• nei casi in cui il bambino/adolescente, in base ai bisogni di cui è portatore, starebbe bene in una famiglia ma questa, per motivi vari (complessità della situazione del minore, assenza o insufficienza delle anagrafi degli affidatari tenute dai servizi sociali, ...), non è reperibile. Potremmo parlare in questo caso di impossibilità per "assenza di risposta" (l’affidamento è richiesto ma non c’è la famiglia affidataria);
• nei casi in cui il bambino/adolescente, a seguito di esposizione a gravi esperienze sfavorevoli, ha bisogno di trovare accoglienza in un contesto diverso da una famiglia. Anche di fronte alla presenza di famiglie disponibili e capaci, occorre dunque chiarire con forza che vi sono casi di bambini e adolescenti così gravemente compromessi nel loro sviluppo psico-fisico e/o sessuale, da richiedere l’intervento delle “buone” comunità, ossia di luoghi specializzati in cui vi sia personale preparato ad accogliere ed elaborare i loro vissuti, ad esempio quelli derivanti da stress post-traumatico. Si tratta di situazioni in cui, si passi l’espressione, il diritto alla famiglia fa un passo indietro rispetto al diritto alla salute del bambino il quale, se prima non usufruisce di un ambiente “terapeutico” in grado di fornire stimoli e struttura adeguati (laddove il corpo e la psiche sono il primo "oggetto" da recuperare), molto difficilmente potrà inserirsi in una famiglia e capitalizzare le opportunità di socializzazione positiva che questa può offrirgli. Vi sono poi altre situazioni, come ad esempio quelle di ragazzi in piena adolescenza che rifiutano la possibilità di "andare a vivere" con un'altra famiglia, per le quali occorre predisporre un luogo di accoglienza a carattere educativo (non necessariamente terapeutico) e con assetto comunitario anziché familiare. Vi sono inoltre i casi di bambini e adolescenti con gravissime disabilità che richiedono un carico di cura e un'assistenza continua che una famiglia affidataria non sarebbe in grado di assicurare. V'è il caso di alcune fratrie numerose che è bene tenere insieme ma che difficilmente trovano una famiglia affidataria disponibile ad "accoglierli tutti". In questi e in vari altri casi, l’affidamento non è possibile (coerentemente con il principio di appropriatezza degli interventi proposto dalle linee guida ONU sull'accoglienza dei minori e le linee di indirizzo nazionali sull'affido). Potremmo dunque parlare di impossibilità per "assenza di domanda".
Ciò premesso è importante sottolineare che un sistema maturo di welfare minorile e familiare dovrebbe sempre essere in grado di offrire "risposte" alla "domanda di affido" e mai fornire risposte di affido in assenza di domanda. Un sistema capace cioè di tutelare il primario interesse del minore offrendogli la forma di accoglienza a lui maggiormente utile, assumendo quindi decisioni children’s need oriented, cioè “centrate” sui bisogni dei bambini e degli adolescenti e non sulle scelte, sensibilità, disponibilità, esigenze dei vari adulti in gioco (famiglia di origine, operatori socio-sanitari, famiglie affidatarie, comunità residenziali, …).

Re: 4. QUALE PRIORITÀ TRA AFFIDO FAMILIARE E COMUNITÀ?

MessaggioInviato: 24/06/2014, 21:36
da Karin
Rispetto agli affidi "non possibili", e al secondo punto in modo particolare (quello in cui si afferma che ci sono minori così "compromessi" da richiedere una accoglienza in una comunità specializzata piuttosto che in una famiglia), sarebbe utile ricordare l'esistenza delle cosidette "coppie professionali". Così tanto in voga al nord Italia, nel centro e nel sud sono praticamente inesistenti e non si sa se per "mancanza di materiale umano" o "per inconsapevolezza di esserlo".
Premesso che il calore di una famiglia sia l'unico a sostituire (anche se solo temporaneamente) quello della famiglia di origine, la "coppia professionale" è capace da un lato di rispondere alle necessità di competenze richieste dal vissuto traumatico di un dato minore, dall'altro di accoglierlo con "amore".
Sarebbe quindi più che mai necessario divulgare anche al resto della nostra penisola la cultura della "famiglia professionale".